domenica 3 aprile 2011

APPUNTI DI DIRITTO SINDACALE DAL GIUGNI


CAPITOLO PRIMO – INTRODUZIONE AL DIRITTO SINDACALE

Definizione del diritto sindacale

Il diritto sindacale è quella parte del diritto del lavoro contenente un insieme di norme, poste dallo Stato o dalle stesse organizzazioni di lavoratori ed imprenditori, che nelle economie di mercato disciplina il conflitto di interessi derivante dall’ineguale distribuzione del potere nei processi produttivi. Esso nasce insieme al movimento operaio nel XIX secolo, quando la rivoluzione industriale da luogo ad una contrapposizione di interessi ben nota tra capitale e lavoro, ossia tra chi detiene i mezzi di produzione, e pertanto è legittimato ad organizzarli ed utilizzarli a propria discrezione (gli imprenditori), e chi, non detenendoli, mette la propria forza-lavoro al servizio di chi li detiene (i lavoratori). Per lungo tempi si è cercato un parallelismo tra il diritto autonomo dei gruppi professionali del Basso Medioevo ed il moderno diritto sindacale: tale paragone non può esistere, in quanto le corporazioni medievali rappresentavano delle coalizioni di soggetti (artigiani o mercanti) con gli stessi interessi, mentre nel diritto sindacale si vanno a contemperare interessi
opposti e confliggenti. L’organizzazione sindacale nasce proprio, infatti, per contrastare lo strapotere degli imprenditori nei confronti dei lavoratori. Per “conflitto industriale” deve intendersi il conflitto tra capitale e lavoro, tipico dei sistemi produttivi moderni (non solo industriali). Esso è considerato come elemento della lotta di classe tra chi ha la proprietà dei mezzi di produzione e chi offre la propria forza-lavoro. In realtà il conflitto in questione non riguarda solo chi detiene la proprietà dei mezzi produttivi, ma soprattutto chi gestisce gli stessi, l’autorità che ha il vero potere sui mezzi (pensiamo ad una società in cui i dirigenti hanno un potere molto più ampio rispetto agli azionisti). Il diritto sindacale si inquadra proprio all’interno del conflitto industriale, apprestando la massima tutela a favore dei lavoratori in esso coinvolti.

Diritto sindacale e relazioni industriali

Il diritto sindacale analizza gli stessi temi trattati dalla disciplina delle c.d. “relazioni industriali”, sviluppatasi per lo più nei paesi anglosassoni, la quale ha ad oggetto l’insieme delle relazioni intercorrenti tra imprenditori, lavoratori e pubblici poteri, le quali conducono all’emanazione di norme dirette a regolare il sistema produttivo: quindi il sistema delle relazioni industriali prende in considerazione il contesto normativo (web of rules) dei rapporti tra interessi organizzati.

L’effettività nel diritto sindacale

Un aspetto fondamentale del diritto sindacale lo ritroviamo “nell’effettività” delle sue norme, che merita particolare attenzione. Il principio di effettività di una norma (e del diritto in genere) prevede che ad essa sia data concreta esecuzione, in tutte le sue parti, quindi tanto per la disciplina ivi contenuta, quanto per le sanzioni previste in caso di inottemperanza. Per il diritto sindacale la situazione è diversa. L’emanazione di una disciplina, che dovrebbe competere solo al potere legislativo come costituzionalmente previsto, si basa, molto spesso, su una mediazione politica che
coinvolge anche le parti sociali (L.247/1997 preceduta da un protocollo sul Welfare, ossia
da un accordo tra Governo e sindacati). Il diritto sindacale, infatti, per garantire
l’osservanza spontanea delle norme ed evitare situazioni spiacevoli a livello sociale, si
poggia proprio sul consenso sociale, garantendo così la propria effettività.

Astensione legislativa e ruolo della dottrina

Dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo, in vigore dal 1926 sino al 1944, e dopo l’emanazione della Costituzione repubblicana nel 1948, il legislatore italiano è rimasto per lungo tempo muto in materia di rapporti sindacali e sordo ai bisogni dei lavoratori. Solo nel 1970, con la L.300 che ha introdotto lo Statuto dei lavoratori, si è avuta la prima disciplina sindacale. Dopo altri 20 anni, inoltre, con la L.146/1990 si è disciplinato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Notiamo, quindi, come il silenzio normativo si sia protratto per lunghi periodi e come sia
stato necessario molto spesso, ad opera della dottrina e della giurisprudenza, interpretare
estensivamente le norme già esistenti in base a valutazioni di carattere generale e sociale:
si è applicata, in sostanza, quella che molti definiscono come “politica del diritto”,
attraverso la quale molti autori hanno potuto esprimere il proprio pensiero, non cadendo
nell’ipocrita convinzione che il diritto dei giuristi sia neutrale.

L’ordinamento intersindacale

Abbiamo già detto che il sistema di relazioni industriali scaturisce dalle interazione tra imprenditori, organizzazioni dei lavoratori e pubblici poteri. Sotto il profilo giuridico-normativo possiamo affermare che le relazioni industriali sono rette da un ordinamento stabile, definito come ordinamento intersindacale, distinto dall’ordinamento statale. I due ordinamenti convivono all’interno del nostro sistema, regolando molto spesso le medesime materie: qualora confluiscano verso una stessa valutazione normativa, non si crea alcun problema, ma qualora differiscano tra loro la norma di un ordinamento sarà ineffettiva nell’altro e viceversa. Altre volte le valutazioni normative dei due ordinamenti, pur essendo diverse, non entrano in contrasto: prendiamo ad esempio il contratto collettivo, che per l’ordinamento statale è un semplice accordo tra le parti disciplinato dal codice civile, mentre per l’ordinamento intersindacale è un atto fondamentale che regola i rapporti tra imprenditori e sindacati. Altro esempio è quello degli accordi triangolari tra le parti sociali (sindacati ed imprenditori) ed il Governo, in forza dei quali quest’ultimo si impegna a disciplinare legislativamente una determinata materia oggetto dell’accordo. In realtà il Governo, secondo l’ordinamento statale, non può obbligare il Parlamento in nessun modo ad approvare una legge, ma all’interno dell’ordinamento intersindacale un simile accordo assume una rilevanza notevole.

Il ruolo della giurisprudenza

La giurisprudenza, così come la dottrina, ha contribuito notevolmente alla formazione del diritto sindacale, nonostante nel nostro sistema di civil law la decisione di un giudice, nell’espletamento delle proprie funzioni, non abbia autorità vincolante. La giurisprudenza, però, molto spesso, con la costanza del proprio indirizzo di pensiero, ha colmato le lacune legislative ed indirizzato lo stesso legislatore nell’emanazione di una disciplina. Basti pensare che il concetto di contratto collettivo, e
la conseguente inderogabilità dello stesso, nasce proprio in ambito giurisprudenziale, così
come altri concetti di notevole rilevanza.

Il diritto comunitario

Il diritto comunitario risulta, ancora oggi, indifferente rispetto al diritto sindacale: ne troviamo prova nel nuovo TFUE (trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) il quale, all’art.153, dopo aver riconosciuto il diritto alla rappresentanza ed alla difesa collettiva degli interessi dei datori
di lavoro e dei lavoratori, nega che rientrino all’interno della competenza comunitaria
temi quali il diritto di sciopero, di serrata ed il diritto di associazione. Eppure l’integrazione economica al quale l’Unione è giunta non può prescindere da questi aspetti del diritto sindacale e tale concetto è stato ribadito anche dalla Corte di Giustizia, che sembra orientata verso un’integrazione della materia sindacale nelle competenze dell’Unione. Va aggiunto che con l’entrata recente di Paesi più poveri ed arretrati (anche per ciò che concerne i diritti dei lavoratori) all’interno dell’UE, è stato attuato un sistema di concorrenza al ribasso (dumping sociale), ossia una tendenza delle imprese ad utilizzare le condizioni del mercato del lavoro di questi Paesi per poter ridurre i costi ed aumentare i guadagni. E’, per ora, impossibile capire come la situazione si evolverà, ma è sicuro che diritto comunitario e diritto sindacale non potranno restare indifferenti ed
indipendenti per molto tempo ancora.

Le regole del conflitto ed il problema della loro stabilità

All’interno del diritto sindacale, nel nostro Paese, non sono ben definite regole per l’individuazione dei soggetti legittimati alla trattativa, alla composizione delle controversie, alla proclamazione ed allo svolgimento degli scioperi. Prima della nascita di sindacati autonomi nel ventennio 70-90 del secolo scorso, la tre grandi Confederazioni sindacali (Cisl, Uil e Cgil) non sentivano l’esigenza di regole ben precise, in quanto un accordo, bene o male, lo si trovava nella maggior parte dei casi, anche con l’esclusione della Cgil. In un secondo momento, però, sono venute meno le ragioni di compattezza tra i lavoratori, essendo venuti meno i conflitti ideologici precedenti inerenti la lotta di
classe. Si sono posti, dunque, 2 problemi: quello della rappresentanza, inerente il rapporto
tra il sindacato ed il gruppo professionale di riferimento, e quello inerente i rapporti tra base e vertice, tra lavoratori e dirigenti dei sindacati, soprattutto in riferimento agli strumenti di democrazia rappresentativa (elezione dei dirigenti) e democrazia diretta (assemblee e referendum). Infatti mentre da un lato la Cisl ha sempre privilegiato la tutela dei propri iscritti, adoperando il sistema dell’elezione dei dirigenti, la Cgil ha sempre valorizzato strutture rappresentative elette da tutti all’interno di assemblee e referendum, coinvolgendo tutti i lavoratori, anche quelli non sindacalizzati. Il Protocollo del 23 luglio 1993 sembrava aver trovato una soluzione al suddetto problema, individuando i soggetti titolari dei poteri di rappresentanza e l’architettura della contrattazione collettiva. L’accordo quadro del 22 giugno 2009, invece, si è mosso nell’opposta direzione, allontanando la Cgil dalle regole della contrattazione collettiva e non vincolandola agli
accordi.

CAPITOLO SECONDO – LA LIBERTA’ SINDACALE

Principio costituzionale della libertà sindacale

L’art.39 della nostra carta costituzionale sancisce che l’organizzazione sindacale è libera, contrariamente a ciò che era previsto all’interno del sistema corporativo fascista, il quale prevedeva che gli interessi collettivi fossero tutelati dallo Stato e che la partecipazione dei soggetti interessati non fosse libera. Il diritto di organizzarsi liberamente si manifesta sia sotto un profilo pubblico, inibendo allo Stato di compiere atti lesivi della libertà del lavoratore, sia sotto un profilo privato, evitando che i datori di lavoro possano limitare la libertà sindacale. In merito a quest’ultimo fine, tra
l’altro, è stato emanato lo Statuto dei lavoratori, per consolidare il diritto di cui all’art.39 della Costituzione.

Libertà di organizzazione sindacale

Abbiamo detto che la libertà di organizzazione sindacale è sancita dall’art.39 della Costituzione. La più generale libertà di associazione, invece, è tutelata all’interno dell’art.18 Cost, ma quest’ultima risulta vincolata, e pertanto non illimitata, nel caso in cui persegua fini vietati dalla legge penale.
La libertà sindacale è priva, invece, di vincoli di qualsivoglia genere, in quanto la sua stessa previsione costituzionale ne legittima l’esercizio. Inoltre va sottolineata la differenza tra i due termini: organizzazione ed associazione. Se il legislatore ha utilizzato la parola “organizzazione” in merito all’attività sindacale, vuol dire che essa può essere esercitata sia in forma associativa, sia in altre forme (es. consigli di fabbrica). Oggetto del riconoscimento costituzionale è quindi l’organizzazione sindacale, con essa intendendosi non solo l’attività svolta in forma collettiva e coinvolgente una pluralità di soggetti organizzati, ma anche la stessa attività che a ciò conduce (è l’esempio di un soggetto singolo che promuove la costituzione di un’organizzazione sindacale).

La normativa comunitaria

Nonostante la Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel 2000, riconosca la libertà sindacale come una “semplice” libertà di associazione senza conferirgli il peso specifico che nel nostro ordinamento le viene attribuito dall’art.39 della Costituzione, e nonostante il TFUE, all’art.153, escluda la libertà sindacale dalla competenza comunitaria, sia la previsione di un Comitato economico e sociale con funzioni consultive rispetto alle Istituzioni UE, sia il
riconoscimento del ruolo della contrattazione collettiva previsto in molte norme dello stesso TFUE, ci fanno capire come sia inevitabile che il diritto sindacale assume una valenza comunitaria e venga disciplinato anche in ambito UE. Il principio di sussidiarietà, uno dei principi cardini in materia di competenza dell’Unione e degli Stati membri e previsto dall’art.5 TUE, prevede che l’Unione, nei settori di competenza concorrente, debba intervenire solo qualora ravvisi che un intervento sulla stessa materia dei singoli Stati membri sia insufficiente. Se, come abbiamo detto, il TFUE esclude tale competenza, vuol dire che l’Unione ritiene che il livello qualitativo della disciplina sindacale dei singoli Stati sia sufficiente. Ma gli ordinamenti dei singoli Stati membri hanno validità ed
efficacia solo all’interno dei territori degli stessi ed hanno, comunque, un effetto indiretto anche sull’assetto comunitario, dovendo l’Unione rispettare i diritti fondamentali comuni alla tradizione giuridica dei singoli Paesi: in poche parole il principio di sussidiarietà è stata applicato in maniera errata ed il principio di rispetto delle tradizioni giuridiche non è stato rispettato. Il diritto sindacale è riconosciuto, all’interno di tutti gli Stati, come diritto fondamentale, e pertanto un tale peso specifico dovrebbe assumere anche a livello comunitario.

La libertà sindacale nelle convenzioni internazionali

Anche il diritto internazionale si è spesso occupato della materia del lavoro, in particolare della libertà sindacale e del diritto di sciopero. Rilevanti a riguardo sono le Convenzioni dell’OIL
(Organizzazione Internazionale del lavoro, nata nel primo dopoguerra e consolidatasi nel secondo in ambito ONU), in particolare la n.87 e la n.98, a cui l’Italia ha dato attuazione tramite la L.367/1958: la prima di esse prevede una tutela della libertà sindacale nei confronti dello Stato, sia per ciò che concerne le organizzazioni dei lavoratori, sia per quelle dei datori di lavoro, su cui il potere statale non può esercitare alcuna pressione; la seconda, invece, ha previsto una tutela della libertà sindacale dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, che non possono porre in essere condotte antisindacali. Altri documenti di valenza internazionale sono stati emanati in materia, sia a livello
internazionale, sia europeo (Carta sociale europea) ed hanno riconosciuto, ancora una
volta la libertà sindacale, l’importanza della contrattazione collettiva ed il diritto allo
sciopero come massima forma di autotutela.

Il divieto di atti discriminatori

La normativa legislativa interna che più di tutte tutela la libertà sindacale è sicuramente rappresentata dalla L.300/1970, contenente lo Statuto dei lavoratori, il cui titolo II è dedicato, appunto, alla libertà sindacale. Lo Statuto, in linee generali, persegue 3 obiettivi: Tutela della libertà e della dignità del lavoratore all’interno dell’impresa: dato il potere di gestione e direzione del datore di lavoro, era necessario tutelare il prestatore di lavoro nel caso di atti lesivi dei valori suddetti (si pensi alla polizia privata nelle fabbriche, alle perquisizioni personali ecc); Vietare i comportamenti dell’imprenditore lesivi della libertà sindacale dei lavoratori sul posto di lavoro; Prevedere una legislazione di sostegno che promuova l’attività sindacale. Per ognuno dei 3 obiettivi suddetti sono previste norme distinte, che analizzate nel complesso tendono a rafforzare i 3 obiettivi contemporaneamente.
Della tutela della libertà e dignità del lavoratore si parlerà in seguito. Analizziamo ora il titolo II dello Statuto, dedicato appunto alla libertà sindacale. L’art.14 tutela il diritto di “costituire e aderire ad associazioni sindacali, nonché di svolgere attività sindacale sul luogo di lavoro”: si ribadisce, in pratica, quanto detto in precedenza in merito all’art.39 della Costituzione, rafforzando l’effettività della norma. L’art.15 dello Statuto riproduce ed integra la Convenzione 98 OIL, prevedendo la nullità di qualsiasi atto discriminatorio, posto in essere dal datore di lavoro, che vincoli l’assunzione del lavoratore alla partecipazione o meno ad associazioni sindacali e prevedendo sanzioni penali per l’imprenditore che ponga in essere un tal comportamento.
Sempre l’art.15 prevede la nullità anche di atti discriminatori volti a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero: in tal caso non sono previste sanzioni penali, ma solo civili e possiamo notare come la dicitura “recargli altrimenti pregiudizio” ricomprenda, negli atti discriminatori, uno svariato numero di comportamenti del datore di lavoro, senza neanche la necessità di tipicizzarli tramite un’elencazione.
L’art.16 vieta, poi, i “trattamenti economici discriminatori”, che si configurano nel caso in cui un datore di lavoro, per la mancata partecipazione del lavoratore ad uno sciopero o per la mancata adesione ad un’associazione sindacale o per l’adesione ad un’associazione sindacale specifica affine all’impresa, premi in un certo senso il lavoratore con un compenso in denaro o di altro tipo valutabile in termini economici (es. giorni di ferie). In tal caso il giudice, su domanda dei lavoratori lesi da tali trattamenti a favore di altri ed accertati i fatti, può stabilire che il datore versi al Fondo
pensioni INPS una somma pari ai trattamenti economici discriminatori di un anno.
Inoltre gli artt.15 e 16 si applicano, in base anche a recenti modifiche legislative, a discriminazioni di tipo sessuale, politico, religioso, di razza o lingua, basate anche su motivi di handicap, di età, di orientamento sessuale o convinzioni personali. Non esiste, tuttavia, un apparato sanzionatorio unico, benché fosse stata disposta una delega al Governo in tal senso dalla L.246/2005.

Sindacati di comodo

L’art.17 dello Statuto vieta la costituzione dei c.d. sindacati gialli o di comodo, ossia di sindacati costituiti e sostenuti dai datori di lavoro o dalle loro associazioni. Ovviamente i comportamenti che possono far desumere un sostegno di tal genere non sono tipicizzati, ma devono manifestare uno stato di asservimento del sindacato al volere dei datori di lavoro (o loro associazioni).
Ovviamente bisogna prestare attenzione al fatto che l’asservimento non si manifesta con la semplice dialettica delle relazione industriali, benché essa possa comportare l’accettazione di rivendicazioni del datore di lavoro. Tra l’altro l’intervento di un giudice sulla questione non comporta lo scioglimento del sindacato giallo, ma semplicemente il divieto per il datore di lavoro di continuare con la propria azione di sostegno, comunque si sia concretizzata.



Libertà sindacale negativa

All’interno dello Statuto nessuna norma, fatta eccezione per l’art.15 lettera “a”, sembra tutelare il diritto del lavoratore a NON associarsi, cioè a non aderire ad alcun sindacato. Solo l’articolo suddetto precisa che siano vietati, e pertanto nulli, gli atti del datore di lavoro volti a subordinare l’occupazione del lavoratore alla partecipazione o meno ad un sindacato. Tuttavia, sulla base di questa previsione, sembra essere implicito anche negli articoli precedenti e successivi al 15 che il lavoratore non possa essere discriminato per la mancata partecipazione ai sindacati. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, inoltre, ha avuto modo di pronunciarsi riguardo ad un caso dapprima tipico all’interno del Regno Unito, ossia sulla necessaria iscrizione ai sindacati per poter proseguire o instaurare un rapporto di lavoro: la Corte ha previsto che una tale pratica violi la Convenzione sui diritti dell’uomo del 1950.

L’organizzazione sindacale dei militari e della polizia

Per quanto concerne i dipendenti pubblici, in passato si è avuta un’aspra controversia circa il diritto
di sciopero, mentre più agevole è risultato il riconoscimento della libertà sindacale (L.860/1984), data anche l’applicazione alle pp.aa. dello Statuto dei lavoratori (art.51 D.Lgs.165/2001). Permangono dei limiti, invece, per ciò che concerne i militari e gli appartenenti ai corpi di polizia. Per i militari la disciplina è contenuta all’interno della L.382/1978, la quale riconosce i diritti costituzionalmente garantiti anche agli appartenenti alle Forze Armate, ma limita l’esercizio di taluni diritti: essi non possono esercitare il diritto di sciopero, né aderire a/costituire associazioni sindacali; per essi sono previsti i Cocer, ossia i Consigli centrali di rappresentanza, composti da organi elettivi, i quali partecipano anche alla determinazione del trattamento economico e normativo. Alla Polizia di Stato, invece, dopo la smilitarizzazione della L.121/1981, è stato riconosciuto il diritto di costituire sindacati, sebbene del tutto separati ed autonomi rispetto alle tre
grandi Confederazioni (possono intrattenere, tuttavia, rapporti con le stesse…l’importante
è non unirsi ad esse), ed al proprio personale il diritto di aderirvi. Permane, comunque, il divieto di sciopero. Stessa disciplina vige per il Corpo forestale dello Stato. La Polizia penitenziaria, invece, non è soggetta a limitazione alcuna.

Libertà sindacale degli imprenditori

Un problema da analizzare è quello inerente la libertà sindacale degli imprenditori. In realtà essi, nella soddisfazione dei propri interessi, possono agire, ed agiscono il più delle volte, individualmente: pertanto manca quell’interesse collettivo, proprio della libertà sindacale. Inoltre il titolo III della carta costituzionale, il quale comprende l’art .39, è dedicato esplicitamente alla tutela del lavoro, mentre della libertà d’impresa si parla solo all’art. 41. Non va neanche dimenticato che il titolo II dello Statuto dei lavoratori inerisce alla libertà sindacale dei soli prestatori di lavoro, non anche a quella dei datori. Ovviamente non può essere esclusa la possibilità che gli imprenditori si
riuniscano in associazioni, le quali tutelino gli interessi degli stessi, ma lo potranno fare in forza dell’art. 18 della Costituzione, inerente la libertà di associazione, senza l’ampia tutela apprestata dall’art. 39 e dallo Statuto dei lavoratori. Tra l’altro alcun documento internazionale tratta l’argomento, ivi compresi quelli scaturenti dall’OIL.

Libertà sindacale dei lavoratori autonomi

Di libertà sindacale, per quanto riguarda i lavoratori autonomi, si può parlare solo nel caso in cui nasca la necessità di svolgere attività contrattuale collettiva a fronte di una controparte, finalizzata alla tutela degli interessi dei lavoratori autonomi in questione: è il caso dei lavoratori parasubordinati o degli agenti di commercio. Qualora, invece, non vi sia alcuna controparte (è il caso degli avvocati) sarà garantita la libertà di associazione in forza dell’art.18 Cost., ma non si potrà parlare di libertà sindacale.

CAPITOLO TERZO – IL SINDACATO

SEZIONE A: IL FENOMENO STORICO

I modelli organizzativi

Abbiamo già avuto modo di dire che la funzione principale del diritto sindacale è quella di contrastare e riequilibrare la disparità di potere esistente, all’interno del rapporto lavorativo, tra imprenditore e lavoratori. Tale fine viene perseguito tramite i SINDACATI, forme di organizzazione collettiva dei lavoratori, i quali garantiscono che le retribuzioni e le altre condizioni di lavoro siano tutelate. Storicamente i primi sindacati si formarono in Gran Bretagna e Stati Uniti, i Paesi inizialmente più industrializzati, tramite un modello sindacale basato sui gruppi professionali: nacquero così i “sindacati di mestiere” (craft union), all’interno dei quali figuravano soggetti esercenti lo stesso mestiere (tutti i muratori, tutti i falegnami, tutti i carpentieri ecc.). In seguito la
produzione di massa altamente meccanicizzata, basata sul modello taylorista, impose una
dequalificazione della manodopera: occorrevano molti lavoratori, ma senza particolare preparazione, e pertanto venne meno il criterio di differenziazione tra i vari modelli sindacali in base ai mestieri (in sostanza: non c’erano più mestieri, come facevano i sindacati ad essere organizzati “per mestieri”???). In poco tempo, dunque, si passò al modello dei “sindacati per ramo industriale”: lavoratori con qualifiche del tutto diverse, ma operanti all’interno del medesimo ramo produttivo, potevano aderire allo stesso sindacato (es. impresa metalmeccanica: operano all’interno di essa tanto periti chimici quanto esperti informatici, ma fanno entrambi parte dei “metalmeccanici”). In Italia, dopo una breve esperienza dei sindacati di mestiere, si è passati rapidamente ai sindacati per ramo industriale. Inoltre gli impiegati, dapprima soggetti ad un’organizzazione separata, si sono uniti agli operai. Sono rimasti esclusi solo i dirigenti ed i lavoratori con professionalità elevate, che hanno dato vita a proprie organizzazioni, quali la Cida
(Confederazione italiana dirigenti d’azienda) e la Confedir (Confederazione dei sindacati dei funzionari direttivi dirigenti e delle elevate professionalità della funzione pubblica). Il
proliferare, negli anni 70/80, di figure di lavoratori con funzioni professionali più elevate
e complesse, ha fatto in modo che nascessero nuove organizzazioni sindacali autonome,
non aderenti a nessuna delle 3 grandi Confederazioni: è nato il sindacato occupazionale,
di cui tipici esempi sono i sindacati dei quadri dell’industria, dei medici ospedalieri, dei
presidi delle scuole medie e superiori. Negli anni 90 e nei primi anni del nuovo millennio,
poi, sono sorti modelli sperimentali di rappresentanza diversi dal sindacalismo industriale, che hanno segnalato la sempre minore importanza del settore produttivo: Sindacati multi-industriali o conglomerati, rappresentanti diverse organizzazioni di categoria preesistenti dopo un’operazione di fusione: si è razionalizzata l’organizzazione dei micro-sindacati dapprima esistenti, con una diminuzione dei costi ed un miglioramento del servizio offerto ai lavoratori;Strutture di rappresentanza per specifiche categorie, come per esempio i pensionati e coloro soggetti ad un lavoro privo di stabilità (collaboratori a progetto, lavoratori somministrati, lavoratori occasionali ecc): questi ultimi, non potendo rientrare nei tradizionali sindacati di categoria, cambiando molto spesso settore produttivo ed azienda, sono ora rappresentati dalla Nidil-Cgil (Nuove Identità di Lavoro), dal Cpo-Uil (Coordinamento per l’occupazione) e dalla Felsa-Cisl (Federazione lavoratori somministrati autonomi ed atipici).



L’organizzazione

In Italia operano 3 Confederazioni sindacali di lavoratori: la Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro), la quale conta quasi 6 milioni di iscritti, la Cisl (Confederazione italiana sindacati liberi), che conta 4 milioni e mezzo di iscritti, e la Uil (Unione italiana del lavoro), che conta poco più di 2 milioni di iscritti. Esse si articolano in 2 linee organizzative: una verticale, che tiene conto delle categorie produttive delle imprese in cui operano i lavoratori, ed una orizzontale, basata sul criterio territoriale (provinciale e regionale) ed è intercategoriale. Per ciò che concerne la linea
verticale, sono previste struttura sul luogo di lavoro, a cui i lavoratori possono accedere direttamente, strutture territoriali di categoria, strutture regionali di categoria e la struttura
nazionale di categoria. In base alla linea orizzontale, invece, si tratta di strutture regionali
e provinciali intercategoriali (definite come Camera del lavoro per la Cgil, Unione sindacale territoriale per la Cisl e Camera sindacale per la Uil). Le strutture regionali intercategoriali e le federazioni nazionali di categoria danno vita alla Confederazione.

Sindacalismo unitario e pluralità di sindacati

In alcuni Paesi europei, come Gran Bretagna e Germania, esistono confederazioni che raggruppano tutti, o quantomeno la maggior parte, dei sindacati esistenti: si parla in tal caso di sindacalismo unitario. All’interno di altri Stati, come Francia e Italia, invece, si ha una pluralità di sindacati. In realtà in Italia, già nel 1944 quando la Liberazione non era ancora compiuta, la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e quello socialista siglarono il cosiddetto Patto di Roma, con cui
crearono un'unica sindacata la Cgil, che avrebbe dovuto riunire tutti i lavoratori. In seguito, data la notevole diversità tra i partiti politici e tra le loro ideologie, dalla Cigl unitaria si staccarono la corrente democratico-cristiana e quella social-democratica e repubblicana, dando vita alla Cisl ed alla Uil. Le tre confederazioni, ancora oggi, sono le più importanti nel nostro Paese. Col passare del tempo, nonostante le notevoli diversità, molto spesso le tre Confederazioni sono state accomunate da un’unità di intenti e di azione. Si è giunti, addirittura, ad ottenere una Federazione delle confederazioni nel 1972, poi disgregatasi nel 1984. Più recentemente i governi di centro destra hanno legittimato gli accordi separati, in modo tale da giocare sulle divisioni sindacali per strappare
condizioni più convenienti allo Stato: molti accordi e contratti collettivi, infatti, hanno visto l’esclusione della Cgil.Infine, va detto che negli ultimi anni si è assistito ad una
proliferazione di micro realtà sindacali, interessate all’adesione di specifiche categorie: è
il caso dei Cobas (Comitati di Base), sindacati a livello territoriale che nacquero inizialmente solo per il settore della scuola, diffondendosi, in seguito, in altri settori.

Le affiliazioni internazionali

Vi sono anche organizzazioni sindacali a livello internazionale che riuniscono i sindacati presenti nei vari Paesi: è il caso della Ces (Confederazione europea dei sindacati), che svolge un’intensa attività nei confronti degli organi dell’Unione Europea: ad essa aderiscono le tre Confederazioni italiane. Altro esempio è la Cisl internazionale: anche ad essa aderiscono le nostre 3 Confederazioni.
N.B. paragrafo inutile

L’associazionismo sindacale degli imprenditori

Le associazioni rappresentative degli imprenditori nel nostro Paese sono maggiormente frammentate rispetto sia alla controparte sindacale, sia rispetto a ciò che avviene negli altri Paesi
europei. Il criterio organizzativo è prevalentemente quello dei grandi settori economici
(industria, commercio ecc), con una diversificazione ulteriore in base alle dimensioni delle imprese o alla natura, pubblica o privata, delle stesse. Le maggior organizzazioni sono Confindustria, per l’industria ed i servizi, Confcommercio, per il commercio, Confagricoltura, per il relativo settore e l’Aran, che rappresenta i datori di lavoro pubblici, le pubbliche amministrazioni. Altre organizzazioni, poi, rappresentano le piccole-medie imprese e sono la Confapi nell’industria, la Confesercenti nel commercio e la Coldiretti in agricoltura, la quale tutela appunto, insieme alla CIA (Confederazione italiana agricoltori), i coltivatori diretti.Vi sono poi una miriade di altre organizzazioni che rappresentano altri settori, quali quello bancario ed assicurativo, quello dei trasporti, quello dell’artigianato ecc. (Non meritano di essere citati, in quanto inutili in ambito di
esame). In passato esistevano anche organizzazione rappresentative di società partecipate dallo Stato, poi sparite dopo il processo di dismissione delle partecipazioni. Un cenno particolare merita la già citata Confindustria, nata nel 1910, la quale è un’associazione di secondo grado, ossia una federazione di associazioni, articolate per territorio e settore produttivo. Le associazioni provinciali operanti in una regione costituiscono le 18 Confindustrie regionali, le quali hanno un importante funzione sindacale (sarebbe meglio dire di rappresentanza). All’interno di Confindustria figurano, infine, Federmeccanica, Federchimica ecc. che rappresentano i vari settori produttivi. Vi sono anche
organizzazioni rappresentative degli imprenditori a livello europeo, come la Business Europe per i privati e la Ceep per i datori di lavoro pubblici.

Organizzazione sindacale non associativa

Abbiamo già specificato che l’organizzazione sindacale può avvalersi di diverse forme organizzative e non esclusivamente di quella associativa. Gli stessi Cobas dei macchinisti delle ferrovie e degli insegnanti sono partiti come organizzazioni spontanee. Esistono poi formazioni tipo le delegazioni dei lavoratori ed i comitati di agitazione, che nascono per lo più in momenti particolari, nei quali le tre grandi Confederazioni sembrano incapaci di rappresentare alcune categorie di lavoratori.

SEZIONE B: LA REGOLAMENTAZIONE GIURIDICA

Sindacato e categoria professionale e la libertà di scelta tra i vari modelli organizzativi

Abbiamo analizzato i vari modelli organizzativi tra i quali i sindacati possono scegliere. La scelta, appunto, inerisce alla categoria professionale di lavoratori da tutelare ed è importante, anche sotto
il punto di vista dello studio, in quanto ci fa capire quali interessi il sindacato andrà a salvaguardare. La scelta del criterio organizzativo, all’interno del sistema corporativo fascista, era eteronoma, ossia imposta dallo Stato, che individuava le categorie e riconosceva un sindacato per categoria. Oggi, invece, la scelta, lo ribadiamo ancora una volta, è del tutto priva di vincoli. Talune volte può accadere che, proprio in forza di tale libertà, lo stesso interesse sia tutelato da vari sindacati: la questione andrà risolta o tramite un accordo tra gli stessi, o tramite il rapporto di forza di un’organizzazione rispetto all’altra.

La mancata attuazione dell’art. 39 Cost.

L’art.39 Cost., dopo aver previsto nel primo comma che l’organizzazione sindacale è libera, e che quindi i sindacati possono regolarmente esercitare la propria attività e prevedere, tramite la scelta dei lavoratori/categorie professionali da tutelare, quale sarà il proprio campo di applicazione,
prevede nei commi 2,3, e 4 che i sindacati siano sottoposti a registrazione, per la quale è
necessaria la democraticità degli statuti e che, in forza della registrazione, essi acquisiscano personalità giuridica, potendo stipulare contratti con efficacia ne confronti di tutti, erga omnes. Il disposto dell’art.39 riflette anzitutto la volontà di una parte politica che voleva salvare il sistema corporativo, modificandolo nel punto della libera elezione dei dirigenti, ed in secondi la volontà di un’opposta parte politica che non voleva intromissioni da parte dello Stato. I commi in questione, infatti, rimangono tuttora inattuati: essi, non essendo dotati di efficacia diretta nell’ordinamento, necessitavano di un intervento da parte del legislatore, intervento che non è mai arrivato per una serie di ragioni: La registrazione avrebbe potuto essere un mezzo di intromissione dello Stato ed
avrebbe comportato un controllo degli iscritti ai vari sindacati, il che avrebbe inciso, in una ipotetica fase di contrattazione, sulla rappresentanza negoziale del sindacato: la Cisl, a quel tempo minoritaria, avrebbe visto il proprio ruolo sminuito rispetto all’antagonista di sempre, la Cgil, e pertanto si oppose alla all’attuazione della norma costituzionale; l’idea, tipica del sistema corporativo, che un sistema sindacale di diritto dovesse prevedere obbligatoriamente la personalità giuridica dei sindacati e l’efficacia erga omnes dei contratti, è stata via via abbandonata; il sistema sindacale di fatto esistente ha assunto sempre maggiore importanza, tramite lo strumento della contrattazione collettiva, e lo stesso legislatore ha, nella prassi, accettato l’idea di un sistema di tal
genere. Benché i sindacati abbiano evitato, in forza della mancata attuazione dell’intero articolo 39, di “contarsi”, cioè di scendere in campo con il numero dei propri iscritti ben chiaro, essi hanno perso il potere, ben più ampio rispetto alla mera contrattazione collettiva attuale, di stipulare contratti valevoli per le intere categorie rappresentate.
N.B. leggendo poche pagine del libro o di questa rielaborazione si intuisce bene l’andamento
pro sindacale dell’autore ed il suo orientamento politico. Il sottoscritto, però, invita i
propri colleghi studenti ad una riflessione che esuli dal proprio “credo politico”: l’autore
sottolinea, in linea con altri autori prima di lui, che l’applicazione data dell’art.39 non
costituisce inadempimento costituzionale. Basta leggere l’art.39 al comma 2 per capire
che le cose non stanno esattamente come ce le raccontano: il codice parla di “obbligo”
dei sindacati alla registrazione, non di mera facoltà per garantire la possibilità di stipulare
contratti con efficacia erga omnes, come invece dice il libro. Il comma 2, infatti, si
presenta indipendente rispetto al comma 4. Vi invito alla riflessione, al di là, ripeto, di
quale sia la vostra idea politica ed al di là della simpatia che tutti nutriamo per i sindacati
che spesso, ma non sempre, tutelano i lavoratori.

La scelta privatistica

Abbiamo visto come la scelta di non emanare una legge sindacale per la corretta attuazione dell’art. 39 Cost. sia stata il frutto di un compromesso tra, da un lato, le forze politiche e dall’altro quelle sociali. Tramite tale scelta si è manifestata la volontà di non collocare l’attività sindacale all’interno del diritto pubblico, ma di assoggettarla alla disciplina del diritto privato: lo Stato non deve interferire con l’attività autonoma dei gruppi.
L’associazione non riconosciuta

I sindacati, dunque, al pari di ciò che avviene per i partiti politici, operano all’interno del nostro ordinamento come associazioni NON riconosciute, non essendo soggette a registrazione ed essendo disciplinate dagli artt.36, 37 e 38 del codice civile. Il legislatore del 1942, infatti, non poteva in alcun modo immaginare che sindacati e partiti politici avrebbero assunto forme associative libere, in quanto in tal periodo l’unico partito legittimo era il P.N.F. ed i sindacati erano inquadrati come personalità di diritto pubblico. E’ utile rammentare la disciplina codicistica in materia di associazioni non riconosciute: esse si costituiscono tramite un atto di volontà dei propri fondatori ed in forza della propria struttura aperta, permettono l’adesione ad uno svariato numero di soggetti. L’associazione è autonomo centro di imputazione, essendo un soggetto di diritto, ma non ha personalità giuridica, il che comporta un’autonomia patrimoniale imperfetta: delle obbligazioni sociali risponde l’associazione con il proprio patrimonio, solidalmente con i soggetti che hanno agito in nome e per conto di essa. Il patrimonio dell’associazione non riconosciuta è costituito dal c.d. fondo sociale, il quale cessa di esistere solo al momento dello scioglimento dell’associazione. Gli associati godono del diritto di recesso, ma nel momento in cui scelgono di esercitarlo, non hanno diritto ad alcuna quota sul fondo sociale: ricordiamo, infatti, che le associazioni non riconosciute sono enti senza finalità economiche, disciplinati dal libro I del codice, che pertanto non
possono attuare un sistema di ripartizione degli utili, pur potendo esercitare (la disciplina
originaria non lo prevedeva) attività d’impresa. Le associazioni, in giudizio, sono rappresentate dalle persone del presidente o del direttore.

Disciplina costituzionale e disciplina del codice civile

La dottrina, il cui apporto in materia è stato determinante, ha comunque previsto che alle associazioni non riconosciute, e pertanto ai sindacati, vadano applicate, laddove compatibili e non inerenti alla personalità giuridica, le norme previste in materia di associazioni riconosciute: ciò comporta che i conflitti inerenti l’applicazione di norme interne all’associazione, possano essere risolti anche in giudizio. La questione ha generato dei conflitti, all’interno della stessa dottrina, tra chi sostiene che i sindacati siano assoggettati alle norme del diritto comune, e pertanto al controllo giudiziale, e chi sostiene la tesi contraria.

La disciplina delle forme organizzatorie non associative

Abbiamo già avuto modo di specificare che i sindacati possono utilizzare forme organizzative diverse da quella associativa. In tali casi, essi rimangono pur sempre soggetti di diritto, anche se operano attraverso delegazioni occasionali che rappresentano gli interessi dei lavoratori. Esaurito il proprio mandato, però, la delegazione si scioglie, non godendo della stabilità dell’associazione non riconosciuta. Questo ci porta a capire che esse operino, per lo più, sotto il profilo giuridico come veri e propri comitati (artt.39 e ss. c.c.) e sotto il profilo interno, nei rapporti con i lavoratori, in forza di un mandato collettivo. Anche tra i datori di lavoro si possono avere, tra l’altro, delegazioni
temporanee che tutelino la categoria, come avvenne nel 1958, quando le società a partecipazione statale si sganciarono dalle organizzazioni dei datori di lavoro privati per dar vita ad una propria delegazione intersindacale, almeno fino a quando non venne costituita un’associazione apposita, l’Intersind, venuta meno in seguito al processo di dismissione da parte dello Stato delle partecipazioni.

Interessi collettivi, individuali e generali

I sindacati, quindi, sono portatori di un interesse collettivo, per tale intendendosi NON la somma degli interessi individuali dei lavoratori, ma la combinazione di tali interessi, che risulta, tra l’altro, indivisibile, ossia può essere soddisfatto solo da un unico bene che soddisfi il bisogno della collettività. Vediamo, dunque, come l’interesse collettivo sindacale vada tenuto distinto dall’interesse individuale dei lavoratori, ma anche dall’interesse generale della società, del quale è portatore unico lo Stato. I sindacati, infatti, anche qualora siano numerosi, sono pur sempre rappresentativi di una parte della società, non di tutta, e pertanto tendono a tutelare pur sempre un interesse di parte, l’interesse collettivo appunto. Tuttavia, essendo l’interesse collettivo “indivisibile”, i sindacati non possono tutelare solo le prerogative dei propri iscritti, ma anche quelle di coloro che hanno scelto di non aderirvi: il sindacato dei metalmeccanici, per esempio,
non potrà salvaguardare l’interesse dei soli metalmeccanici iscritti, ma dovrà tutelare
anche i non iscritti. Tra l’altro questa forma di tutela totale giova anche allo stesso sindacato: i datori di lavoro, infatti, qualora fossero tutelati solo gli interessi dei lavoratori iscritti ai sindacati, preferirebbero sicuramente assumere lavoratori, di uguale categoria professionale, che non godono di tali diritti.

CAPITOLO QUARTO – RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE

Rappresentanza e rappresentatività

Il sindacato altro non è, ed abbiamo avuto modo di precisarlo, che un gruppo organizzato portatore di un interesse collettivo: il gruppo è diverso dalla somma degli individui che lo compongono, al pari dell’interesse collettivo, che è diverso dalla somma degli interessi individuali. Il legame, quindi, intercorrente tra lavoratori e sindacato non si fonda sul mandato con rappresentanza disciplinato dal codice: in tal caso, infatti, il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato, mentre i sindacati agiscono in nome proprio, perseguendo l’interesse collettivo di cui sono titolari. Nel linguaggio corrente, comunque, si parla ugualmente di rappresentanza, ma non sotto il profilo codici stico, quanto sotto il profilo del consenso di cui gode un sindacato da parte dei lavoratori. Differente è invece il concetto di rappresentatività, definibile come la capacità di un sindacato di ottenere un comportamento uniforme da parte dei lavoratori. E’ stato lo stesso legislatore ad introdurre tale concetto, prevedendo che taluni diritti siano riconosciuti solo ai sindacati che godono di rappresentatività, e non anche a tutte le organizzazioni sindacali che non hanno alcuna influenza sulle categorie professionali.

SEZIONE A: MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’ NELLO STATUTO DEI LAVORATORI

La ratio della selezione tra i sindacati

All’interno del Titolo III dello Statuto dei lavoratori, introdotto nel nostro ordinamento con la L.300/1970, viene trattata l’attività sindacale. Il legislatore, in tale titolo, riconosce alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative una serie di diritti che favoriscono i rapporti tra le stesse organizzazioni ed i lavoratori, imponendo di fatto una serie di imposizioni a carico dell’imprenditore: basti pensare all’obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori dei
locali per le assemblee. Proprio perché in molti casi va imposto un sacrificio all’imprenditore, i diritti sindacali sono riconosciuti solo alle associazioni sindacali più rappresentative: se infatti le organizzazioni in questione non godessero di rappresentatività, non ci sarebbe motivo di imporre sacrifici, in tal caso superflui, all’imprenditore.

I criteri di selezione

L’art.19 dello Statuto, rubricato come “costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali”, nella sua formulazione originaria, attribuiva la titolarità dei diritti sindacali sia “alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, sia alle “associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva”. Occorreva, quindi, che un sindacato
facesse parte di una delle tre grandi Confederazioni o che avesse concluso contratti collettivi nazionali o provinciali, in quanto in caso contrario non poteva godere di alcun diritto. Il primo criterio viene definito come della “rappresentatività storica”, in quanto basato sul dato storico dell’effettiva maggiore partecipazione delle confederazioni, o anche della “rappresentatività presunta”, in quanto il fatto stesso di basarsi su un fatto storico, delinea il fatto che non ci sia nessun dato quantitativo di maggiore rappresentatività. Sono indici di maggiore rappresentatività di un sindacato: La consistenza del numero di iscritti; La presenza in vari settori produttivi e territoriali; Lo svolgimento di un’attività di contrattazione con continuità e sistematicità.
Anche la legge di riforma del CNEL, organo consultivo all’interno del nostro ordinamento, ha previsto che siano i sindacati più rappresentativi, in base ai criteri suddetti, a designare i rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

Giurisprudenza costituzionale sull’art.19 prima del referendum del 1995

In molti avevano sollevato obiezioni circa la costituzionalità dell’art.19 rispetto all’art.39 ed all’art.3: l’attribuzione di determinati diritti alle sole confederazioni o a sindacati che avessero stipulato contratti collettivi nazionali o provinciali, infatti, sembrava violare la libertà sindacale attribuita dall’art.39 ed il principio di eguaglianza, previsto all’interno dell’art.3. La Corte costituzionale, in più sentenze, ha avuto modo di precisare due concetti importanti: l’art.19 attribuisce diritti e poteri aggiuntivi che vanno oltre la libertà sindacale, ma non vieta in alcun modo la stessa; il riconoscimento di maggiori diritti, inoltre, non è lesivo del principio di eguaglianza, in quanto per configurarsi una tale lesione, occorra una disparità di trattamento priva di giustificazione e che non risponda a criteri di ragionevolezza, non essendo sufficiente la sola diversità di trattamento generata da ragioni plausibili e consapevoli, espresse dal legislatore.

Il referendum del 1995

L’art.19 è stato oggetto di 2 referendum abrogativi l’11 giugno del 1995: il primo di essi, che prevedeva l’abrogazione di entrambi i criteri selettivi, ha avuto esito negativo, mentre il secondo ha
avuto esito positivo, prevedendo che l’attribuzione dei diritti sindacali in azienda sia concessa “alle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”, eliminando di fatto la lettera “a” dell’art.19, inerente le confederazioni, ed eliminando la dicitura “nazionali e provinciali” della lettera “b” dell’articolo. Oggi, quindi, l’accesso ai diritti del Titolo III dello Statuto non è più riservato ai sindacati che abbiano concluso accordi almeno a livello provinciale, essendo previsto che anche coloro che operano in una sola azienda, possono usufruire di tali diritti. Tuttavia le associazioni sindacali che non abbiano mai concluso un contratto
collettivo, non possono in alcun modo accedere ai diritti di cui al Titolo III dello Statuto. Il criterio della rappresentatività presunta lascia il posto ad un criterio fondato su un fatto accertabile, la conclusione di un contratto collettivo nell’unità produttiva in cui pretende di costituire la propria RSA.

La giurisprudenza costituzionale sull’art.19 dopo il Referendum

La Corte costituzionale è stata chiamata a sindacare sulla legittimità dell’art.19 anche dopo il referendum del 1995, sempre per contrasto con la libertà sindacale sancita dall’art.39 ed il principio di eguaglianza dell’art.3 Cost. Il nuovo testo avrebbe attribuito, secondo molti, al datore di lavoro la facoltà di riconoscere la rappresentatività o meno di un sindacato, accettandolo o meno come controparte contrattuale. La Corte ha respinto entrambe le eccezioni riguardo la costituzionalità
dell’art.19.


SEZIONE B: ULTERIORI IPOTESI DI RILEVANZA DELLA MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’

Le altre leggi che dispongono una selezione tra i sindacati

Una selezione tra i vari sindacati, simile a quella descritta fin ora, è attuata anche da leggi
ordinarie in due casi: nel caso di organi collegiali, come ad esempio il CNEL di cui abbiamo già parlato, o nel caso di legittimazione a stipulare contratti collettivi o contratti con particolari effetti. Gli interventi legislativi in questi due sensi sono stati molteplici, ma gli esempi del CNEL nel primo caso e della rappresentatività nel settore pubblico nel secondo, sono sufficienti a rendere l’idea.

La rappresentatività ponderata nel settore pubblico

Una riforma attuata negli anni 90 ha introdotto, per i rapporti di lavoro alle dipendenze dello Stato e degli altri enti pubblici, una particolare disciplina della rappresentatività sindacale. Per le relazioni sindacali nelle pubbliche amministrazioni, tra l’altro, la nozione di sindacato maggiormente rappresentativo non serve solo per individuare i soggetti che godono di diritti sindacali (come avviene nel settore privato), ma soprattutto per individuare quei sindacati abilitati alla contrattazione collettiva nazionale, sulla base non di una rappresentatività presunta, ma di una rappresentatività basata su dati numerici: sono ammessi ai tavoli di trattativa per contratti collettivi solo quei sindacati che abbiano un indice di rappresentatività del 5% calcolato in media sul dato associativo (quanti iscritti ha quel sindacato) e sul dato elettorale (voti espressi in favore di quel sindacato). Superata la soglia del 5% i sindacati si ritrovano sullo stesso piano all’interno della contrattazione. L’Aran, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, deve comunque acquisire il consenso di tanti sindacati che rappresentino almeno il 51% dei lavoratori, calcolato sul dato associativo e su quello elettorale, o quantomeno il 60% dei lavoratori tenuto conto del solo dato elettorale, per poter stipulare contratti nazionali.

SEZIONE C: LA CRISI DELLA MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’ PRESUNTA

Maggiore rappresentatività presunta o ponderata? La Corte costituzionale, confermando quanto abbiamo detto in questo capitolo, ha confermato nella sentenza 54/1974 che una selezione tra i sindacati è possibile nel momento in cui si attribuiscano maggiori poteri e diritti ad alcune
organizzazioni sindacali indipendentemente dalla libertà sindacale che spetta a tutti, e nel momento in cui la selezione è giustificata da motivi ragionevoli, per non entrare in contrasto con l’art.3 inerenti il diritto di eguaglianza. Da un altro punto di vista, fatta eccezione per i sindacati dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, i criteri di selezione sono rimasti, nel tempo, ancorati ad indici presuntivi e non numerici di fatto (rappresentatività presunta). La stessa Corte Costituzionale ha ribadito la necessità, negli ultimi anni, di passare ad un modello che rifletta realmente l’adesione dei lavoratori a tali sindacati, tramite un intervento del legislatore, che ancora, a distanza di molto tempo, non è arrivato.
N.B. per lo studente: sarebbe bastato che i sindacati fossero registrati secondo la previsione costituzionale per eliminare il problema.



CAPITOLO QUINTO – LA RAPPRESENTANZA DEI LAVORATORI SUI LUOGHI DI LAVORO

L’organizzazione sindacale sui luoghi di lavoro

I lavoratori, per tutelare i propri interessi, si organizzano sia all’interno dei luoghi di lavoro, sia all’esterno ed il movimento sindacale non rappresenta altro che il rapporto intercorrente tra questi due livelli. La rappresentanza dei lavoratori può essere a CANALE DOPPIO, qualora coesistano due organismi, uno elettivo di rappresentanza generale, ed uno associativo, a rappresentanza volontaria e con potere negoziale, esplicazione dei sindacati esterni nei luoghi di lavoro, o a CANALE UNICO, in cui la struttura di rappresentanza è sindacale/associativa tanto all’interno quanto all’esterno dei luoghi di lavoro.

Le Commissioni interne, le sezioni sindacali aziendali, i delegati ed i Consigli di fabbrica

In Italia, almeno inizialmente, il movimento operaio, all’interno dei luoghi di lavoro, aveva una struttura tipicamente territoriale, distante dalle tre confederazioni sindacali ed organizzata in base
a strutture elettive di rappresentanza di tutti i lavoratori, le Commissioni Interne. Esse furono regolate per a prima volta nel 1906 da un accordo tra FIOM e la fabbrica di automobili Itala, per poi essere soppresse durante il periodo fascista e ripristinate subito dopo lo stesso, per essere regolate nel 1947 da un accordo i, interconfederale, con il quale, però, li vennero sottratto il potere contrattuale dapprima detenuto. Le CI venivano elette a suffragio universale su liste presentate da qualsiasi gruppo di lavoratori e le elezioni si svolgevano a collegio elettorale unico, corrispondente all’unità produttiva, con ripartizione dei seggi tramite metodo proporzionale. Negli stessi anni delle CI, la Cisl tentò di costituire nei luoghi di lavoro delle “sezioni sindacali aziendali” (SAS), che
rappresentassero il sindacato esterno, riproducendone l’articolazione associativa ed il fondamento volontario di rappresentanza: esse avrebbero dato luogo, insieme alle CI, ad un sistema a canale doppio, cosa che non avvenne perché la diffusione delle SAS fu piuttosto scarsa. Durante il biennio 1968-69, le CI furono sostituite da nuove forme di rappresentanza, quali i “delegati” ed i “Consigli di fabbrica”. Il delegato era eletto da un gruppo omogeneo di soggetti, con stessi interessi, appartenenti ad uno stesso gruppo del processo produttivo. Non era formalmente previsto che egli fosse iscritto ad un sindacato esterno. L’insieme di tutti i delegati di un’impresa (o unità produttiva) dava luogo al Consiglio di fabbrica (o dei delegati). Inizialmente tali forme di rappresentanza sindacale furono contrastate dalle tre grandi confederazioni, per poi, in un secondo momento,
essere inglobate all’interno delle stesse.

Le RSA dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori

Con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il legislatore non ha, in alcun modo, voluto regolare la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, prescrivendone forma e struttura. Egli, più che altro, ha voluto garantire la presenza, nelle unità produttive, dell’organizzazione sindacale. Lo stesso art.19, come abbiamo visto, prevede che possano accedere ai diritti di cui al Titolo III dello Statuto, le RSA (rappresentanze sindacali aziendali) costituite ad iniziativa dei lavoratori ed operanti all’interno delle organizzazioni sindacali più rappresentative: deve, quindi, sussistere un
collegamento tra RSA e sindacati, tale che i secondi quanto meno riconoscano i primi. Per tal motivo le RSA potranno essere delle SAS o dei Consigli di fabbrica.



La crisi dei Consigli e le rappresentanze sindacali unitarie nel settore privato

La rottura del patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil nel 1984 e le conseguenti revoche di riconoscimento di molti Consigli di fabbrica da parte di uno o più sindacati per costituire delle proprie RSA, l’assenza in molti settori degli stessi Consigli, il venire meno dell’elevata omogeneità di interessi tra i lavoratori all’interno delle aziende, hanno rappresentato le cause principali della crisi dei Consigli di fabbrica che ha portato, di lì a poco, alla nascita delle RSU (rappresentanze sindacali unitaria) all’interno del Protocollo tra Governo e parti sociali del 1993. In tale patto è stato previsto che i vari sindacati firmatari, nelle imprese con più di 15 dipendenti, rinuncino a formare delle proprie RSA e costituiscano delle RSU, partecipando alle relative elezioni. Le RSU subentrano, quindi, alle RSA nei diritti di cui al titolo III dello Statuto dei lavoratori, laddove abbiano stipulato l’accordo originario o vi abbiano aderito in seguito. Tra l’altro, al contrario di ciò che avveniva per i Consigli di fabbrica, ai quali i vari sindacati potevano revocare il riconoscimento per costituire autonome RSA, per le RSU è previsto che un sindacato possa revocare il riconoscimento solo dando disdetta dell’intero accordo interconfederale, in tal modo precludendosi di partecipare alle elezioni delle RSU in tutti gli altri luoghi di lavoro (e non solo in uno specifico come avveniva per i Consigli dei delegati) e costituendo delle proprie RSA negli stessi. L’accordo RSU, tra l’altro, è aperto a tutti i sindacati, anche a quelli che non firmatari del contratto nazionale, purché essi abbiano un proprio statuto ed un proprio atto costitutivo e raccolgano un numero di firme non inferiore al 5% dei lavoratori, escludendo così i gruppi occasionali di lavoratori. Le associazioni sindacali, tuttavia, mantengono dei mezzi di controllo e di raccordo sulle stesse RSU, in quanto 2/3 dei seggi disponibili sono ripartiti tra tutte le liste in base ai voti conseguiti, mentre l’altro terzo viene ripartito tra le liste presentate dai sindacati firmatari del ccnl (contratto collettivo
nazionale) applicato nell’unità produttiva. In questo ulteriore terzo, tra l’altro, i seggi vengono assegnati dai sindacati ai soggetti che essi stessi scelgono, al di là che fossero inclusi o meno nella lista presentata. Le RSU hanno il potere di contrattare, inoltre, a livello aziendale, ma sempre nel rispetto del contratto nazionale, non da sole, ma unitamente alle strutture territoriali dei sindacati (è un ulteriore forma di controllo da parte de sindacati). Le RSU, come notiamo, risultano meno indipendenti rispetto ai Consigli di fabbrica dall’influenza delle organizzazioni sindacali; tuttavia esse sono più stabili ed hanno un ventaglio più ampio di poteri.

Le rappresentanze sindacali unitarie nelle pubbliche amministrazioni

L’impegno a costituire in tutti i luoghi di lavoro le RSU, contenuto nel Protocollo del 1993, si estendeva anche al lavoro pubblico. Tuttavia un’apposita disciplina legislativa, contenuta nel D.Lgs.165/2001, ha regolato la materia in tema di lavoro pubblico, prevedendo anche in questo settore la possibilità per i sindacati maggiormente rappresentativi di costituire delle proprie RSA, così come anche l’obbligo di costituire delle RUP (rappresentanze unitarie del personale), ossia delle vere e proprie RSU, negli enti o amministrazioni con più di 15 dipendenti. Il legislatore, tra l’altro, ha voluto incentivare la partecipazione dei sindacati alle elezioni delle RSU, data la loro facoltà di prendervi parte o meno, prevedendo che i sindacati che non parteciperanno a tali elezioni, dovranno avere una percentuale di almeno il 10% dei lavoratori per poter essere ammessi alle trattative per i contratti nazionali. La disciplina delle RSU private e pubbliche differisce solo in alcuni punti. Ricordiamo, anzitutto, che la costituzione delle RSU private è stata prevista da un Protocollo particolare, mentre la disciplina delle RSU pubbliche è contenuta in una legge. Per le RSU pubbliche è impossibile una ripartizione dei seggi in base al metodo proporzionale che ne conceda un terzo ai soli sindacati firmatari del contratto collettivo, il che significa che tutti i seggi verranno ripartiti in base ai voti ottenuti. Inoltre mentre per partecipare alle elezioni delle RSU private occorre, ai soli sindacati non firmatari del ccnl, la sottoscrizione da parte del 5% dei lavoratori aventi diritto, per le RSU pubbliche tale sottoscrizione, sebbene richieda percentuali inferiori, è necessaria per tutti i sindacati.
La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese

L’art.46 della nostra carta costituzionale stabilisce che <<…la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare , nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende>>. Sembra, quindi, configurarsi un ulteriore diritto dei lavoratori, oltre a quello inerente l’organizzazione sindacale: si tratta della possibilità di partecipare alle decisioni dell’impresa, tramite l’inclusione di rappresentanti dei lavoratori all’interno di organi decisionali. In realtà l’art.46 rinvia espressamente alla legge la disciplina in materia: la normativa in materia, purtroppo, non è mai stata emanata, sia perché gli imprenditori non concordano con intromissioni, nel loro potere di gestione, dei lavoratori, sia perché originariamente la Cgil temeva che un coinvolgimento nelle responsabilità gestionali vincolasse l’attività sindacale alle condizioni economiche e produttive dell’impresa. In Germania, invece, sin dal secondo dopoguerra, è stato introdotto un modello di
cogestione, dapprima nel solo settore siderurgico, in seguito per le imprese con più di 2000 dipendenti. La norma costituzionale, sebbene non possa operare autonomamente, non necessita obbligatoriamente di una previsione legislativa: la partecipazione dei lavoratori potrebbe benissimo essere attuata tramite la contrattazione collettiva e l’operato dei sindacati: l’art.46, infatti, non entra in alcun modo in contrasto con l’art.39 inerente la libertà sindacale, in quanto l’attuazione del primo articolo non deve limitare l’attività prevista dal secondo. L’attività di impresa, inoltre, coinvolge diversi interessi, sia quello dell’imprenditore, sia quello dei lavoratori, nonché quello di tutti gli
stakeholders, ossia di tutti i soggetti coinvolti (consumatori, finanziatori ecc): non è quindi un affare privato dell’imprenditore. Non sarebbe pertanto impossibile creare dei mezzi di cogestione, anche all’interno del nostro Paese, tramite la contrattazione collettiva. Bisogna, in questo caso, distinguere tra partecipazione debole dei lavoratori e partecipazione forte: la prima prevede che il dissenso dei lavoratori non impedisca al management di prendere una decisione, la seconda, invece, avrebbe l’effetto contrario e si dovrebbe realizzare tramite l’operato dei sindacati. Già i diritti di informazione, consultazione e di esame congiunto, previsti dalla contrattazione collettiva in alcuni casi (es. in materia di eccedenze di personale), sono un piccolo esempio di coinvolgimento dei
lavoratori. Però attenzione a non fare confusione: non vanno ricompresi, nell’applicazione dell’art.46, i casi di incentivi, previsti dai manager a favore dei lavoratori, in caso di raggiungimento delle finalità aziendali: in tal caso il lavoratore non partecipa alle decisioni, ma semplicemente collabora con l’imprenditore per una maggiore realizzazione dei fini imprenditoriali, contribuendo con il proprio operato e conseguendo benefici economici. Né tanto meno sono da considerarsi applicazione dell’art.46 i casi in cui un lavoratore divenga socio di una qualsivoglia società in cui presta il proprio lavoro: in tal caso si vengono a creare due rapporti distinti, regolati dalle varie norme di legge sul lavoro e sulla partecipazione agli utili del socio lavoratore.

I comitati aziendali europei ed i diritti di informazione e di consultazione nella materia comunitaria

Abbiamo detto che l’impresa non è un fatto privato dell’imprenditore, ma coinvolge una serie di interessi di altri soggetti, primi fra tutti i lavoratori. Di ciò si è occupato il legislatore comunitario, al fine di introdurre una disciplina che permetta alle rappresentanze dei lavoratori di influenzare le decisioni dell’impresa, senza vincolare tali rappresentanze a forme particolari. Anzitutto il legislatore comunitario, con la direttiva 94/45, ha disciplinato il diritto all’informazione ed alla consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese comunitarie. Per imprese comunitarie si intendono quelle imprese che hanno almeno 1000 lavoratori sparsi nel territorio di vari Stati membri e che siano presenti significativamente in più di uno Stato. Si ha, invece, un gruppo di imprese quando un’impresa dominante esercita un potere di controllo su altre imprese. Ecco che quindi si configura la previsione di un organo di rappresentanza dei lavoratori, il CAE
(comitato aziendale europeo), i cui componenti sono eletti o designati a seconda delle decisioni dei vari Stati membri, istituito tramite accordo scritto tra la direzione dell’impresa ed una delegazione speciale di negoziazione, che rappresenti uniformemente i lavoratori di tutti gli Stati membri coinvolti. L’istituzione del CAE, tra l’altro, non è obbligatoria, essendo possibile prevedere ulteriori procedure d’informazione e consultazione dei lavoratori. L’Italia ha attuato la direttiva tramite il D.Lgs.74/2002, prevedendo che i componenti italiani del CAE siano designati per un terzo dalle
organizzazioni sindacali che abbiano stipulato il ccnl e per 2/3 dalle RSU. Il legislatore comunitario, poi, con il regolamento 2157/2001 ha preso in considerazione l’ipotesi di Società europee, ossia società di capitale disciplinate a livello europeo e non vincolate agli ostacoli del diritto commerciale dei vari Stati membri. Anche in tal caso è previsto un coinvolgimento dei lavoratori, tramite un accordo tra i vertici societari ed una delegazione speciale di negoziazione, che costituisca un organo di rappresentanza dei lavoratori per le procedure d’informazione e consultazione. Una terza direttiva, la 2002/14, ha previsto, infine, che in tutte le imprese operanti all’interno del territorio dell’Unione, gli Stati membri, tramite un proprio intervento attuativo, assicurino il diritto d’informazione e consultazione dei lavoratori. Lo Stato italiano, con il D.Lgs.25/2007 ha
affidato tale compito alle RSU, rinviando ai contratti collettivi la determinazione delle modalità di esercizio.

Il rappresentante per la sicurezza

Un’ulteriore forma di rappresentanza dei lavoratori è stata attuata tramite il D.Lgs.626/1994, sostituito recentemente dal D.Lgs.81/2008 in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, il quale prevede l’istituzione del “rappresentante per la sicurezza”: egli non rappresenta solo i lavoratori subordinati, ma tutti i lavoratori al di là del proprio rapporto contrattuale, ivi compresi coloro che svolgono un’attività formativa.La rappresentanza per la sicurezza deve essere istituita a livello territoriale, nonché a livello di sito produttivo. La presenza di un rappresentante per la sicurezza è obbligatoria in tutte le aziende, senza limiti dimensionali, mentre differente è il metodo per la loro nomina a seconda che si tratti di aziende con meno di 15 dipendenti, ed in tal caso saranno gli stessi lavoratori ad individuare il proprio rappresentante, o di aziende con più di 15 dipendenti, ed in tal caso il rappresentante andrà individuato nell’ambito delle rappresentanze sindacali aziendali, tramite elezione o designazione. Ovviamente più è grande l’azienda, più rappresentanti occorreranno: la legge stabilisce un numero minimo, ma la contrattazione collettiva può aumentare tale numero. Vi è poi la figura del rappresentante di sito produttivo, il quale
viene nominato qualora all’interno di uno stesso luogo operino più imprese, il cui operato
cumulativo, di fatto, fa aumentare i rischi di sicurezza: i rappresentanti per la sicurezza aziendali individuano uno di loro per coordinare le proprie attività. I rappresentanti per la sicurezza hanno un ruolo fondamentale: devono ricevere copia del documento di valutazione dei rischi, conoscere la materia legislativa sulla sicurezza e controllarne l’applicazione da parte dell’azienda, hanno diritto a permessi retribuiti in funzione del loro operato, possono accedere liberamente a luoghi di lavoro ed a documenti inerenti l’applicazione delle misure di sicurezza. E’ comunque la contrattazione collettiva nazionale ad individuare le modalità di esercizio di tali poteri, escludendo quella
aziendale, più soggetta alle pressioni dei datori di lavoro e pertanto assoggettabile alla volontà degli stessi.







CAPITOLO SESTO – ATTIVITA’ SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO

SEZIONE A: I DIRITTI SINDACALI

Lo statuto dei lavoratori come legislazione di sostegno

Abbiamo a lungo parlato della libertà sindacale garantita all’interno del Titolo II dello Statuto dei lavoratori, il quale impone un obbligo all’imprenditore di astenersi dal ledere tale libertà. Il titolo III, per garantire una maggior efficacia della libertà sindacale, non si limita ad imporre un divieto, a carico dell’imprenditore, di interferire nelle attività sindacali, ma, tramite una legislazione che viene definita “di sostegno”, limita di fatto il diritto dello stesso ad ottenere la prestazione lavorativa, per poter garantire ai prestatori di lavoro di esercitare i propri diritti. Abbiamo avuto modo di analizzare come l’art.19, che apre il titolo III, attribuisca tali diritti SOLO alle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) che, sebbene costituite dai lavoratori, operino nell’ambito dei sindacati selezionati secondo quanto dispone lo stesso articolo.

L’assemblea

Primo diritto sancito dal Titolo III dello Statuto che prendiamo in considerazione è quello relativo all’assemblea, previsto dall’art.20 ed inerente la possibilità dei lavoratori di riunirsi. Anzitutto l’imprenditore deve garantire dei locali per effettuare tali assemblee, l’energia elettrica in tali locali, il libero accesso ad essi anche per quanto concerne lavoratori in CIG, in sciopero o sospesi. Le assemblee devono avere ad oggetto “materie di interesse sindacale e del lavoro”, il che ricomprende uno svariato numero di temi inerenti l’attività lavorativa. In realtà, in forza dell’art.1 dello Statuto
inerente la possibilità di manifestare il proprio pensiero ed in applicazione del quale è stato previsto l’art.20, le assemblee potrebbero avere ad oggetto anche altri temi, senza godere, però, della tutela apprestata dall’art.20. Le assemblee devono svolgersi fuori dall’orario di lavoro o comunque all’interno di esso nel limite di 10 ore annue normalmente retribuite (ridotte a 3 per il settore privato), e devono essere convocate dalle RSA individuate dall’art.19, nonché dalle organizzazioni sindacali, ossia dalle RSU, che ricordiamo essere la forma assunta dalle RSA dei sindacati aderenti. Ovviamente occorre un preavviso, inerente l’assemblea, dato al datore di lavoro, il quale non può prendere parte, se non previo invito, all’assemblea, alla quale invece possono partecipare dirigenti
sindacali, anche provinciali e di confederazioni. La contrattazione collettiva, infine, può derogare, solo in meglio, la disciplina legale per ciò che concerne la fruibilità del diritto e la possibilità di esercitarlo, anche se è possibile, talune volte, andare incontro alle necessità dell’imprenditore, come è avvenuto nell’Accordo 7 agosto 1998, il quale ha consentito all’amministrazione di differire l’assemblea in caso di condizioni eccezionali e motivate.

Il referendum

Ai lavoratori è, poi, concesso il diritto allo svolgimento di referendum “inerenti l’attività sindacale”: essi devono, secondo quanto prevede l’art.21, svolgersi al di fuori dell’orario di lavoro ed essere indetti da tutte le RSA unitariamente. L’imprenditore, tra l’altro, deve collaborare per la disponibilità dei locali, l’accesso agli stessi, l’uso dei servizi e così via. Altri referendum possono essere svolti, ma senza tale collaborazione.



I permessi sindacali

I dirigenti delle RSA hanno diritto, in forza dello Statuto dei lavoratori, a permessi sindacali per lo svolgimento della propria attività sindacale, ossia hanno diritto ad assentarsi dal posto di lavoro entro i limiti consentiti dagli artt.23 e 24 dello stesso Statuto, i quali attuano una distinzione tra “permessi retribuiti e permessi non retribuiti”. I dirigenti di cui si parla, tra l’altro, sono quelli
nominati secondo le procedure previste dalla statuto dell’organizzazione al quale sono riconducibili: tale nomina deve essere comunicata anche al datore di lavoro. La contrattazione collettiva, tra l’altro, ha previsto che possano godere di tali diritti anche i componenti delle RSU. L’art.23 disciplina i permessi retribuiti, prevedendo che essi siano concessi ai dirigenti per l’espletamento del loro mandato, ossia per lo svolgimento di tutte quelle attività inerenti le RSA (rappresentanza, partecipazione a trattative, funzioni organizzative). Il dirigente che voglia esercitare il proprio diritto deve comunicarlo al datore di lavoro almeno 24 ore prima. Il numero dei dirigenti che può esercitare tale diritto varia in base alle previsione dell’art.23: un dirigente solo per le unità produttive con 200 dipendenti, un dirigente ogni 300 dipendenti per ogni RSA in unità produttive
fino a 3000 dipendenti, un dirigente ogni 500 dipendenti per ogni RSA in unità produttive
con più di 3000 dipendenti. Nel primo caso viene garantita un’ora all’anno di permesso
retribuito, negli altri due casi 8 ore mensili. .L’art.24 disciplina, poi, i permessi non retribuiti, prevedendo che essi vengano riconosciuti per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi/convegni di natura sindacale, in misura non inferiore ad 8 giorni all’anno e con un preavviso di almeno 3 giorni. Nella prassi sono le RSA richiedenti a scegliere tra i due tipi di permessi. I lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali nazionali o provinciali possono essere posti in aspettativa non retribuita per tutta la durata del proprio mandato, dando luogo ad un’ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro: la norma si applica a tutti i dirigenti e non solo a quelli delle organizzazioni sindacali più rappresentative. Gli artt.31 e 32 dello Statuto garantiscono medesimi diritti anche a coloro che ricoprono cariche politiche.

Le tutele per i dirigenti sindacali

Ai dirigenti delle RSA, nominati in base all’organizzazione interna sindacale e la cui nomina è conosciuta o pervenuta dal/al datore di lavoro, è apprestata una tutela particolare, proprio per la
maggiore esposizione degli stessi a ritorsioni da parte dell’imprenditore, in materia di licenziamenti e trasferimenti. L’art.18 dello Statuto prevede una procedura giudiziale di reintegrazione immediata in caso di licenziamento, senza attendere la sentenza definitiva. L’art.28 pone una tutela sul piano della condotta antisindacale. L’art.22 prevede che il trasferimento di tali soggetti ad altra unità produttiva debba avvenire previo nulla osta delle associazioni sindacali alle quali gli stessi appartengono. I trasferimenti all’interno della stessa unità produttiva non ricevono pari tutela, ma sono comunque illegittimi se configuranti un atto discriminatorio ed una condotta antisindacale.

Diritti di affissione e diritto all’uso di locali

L’art.25 dello Statuto disciplina il diritto delle RSA di affiggere, all’interno delle unità produttive, manifesti, testi e pubblicazioni inerenti la materia sindacale e del lavoro (unico limite imposto). I datori di lavoro, quindi, devono mettere a disposizione di ogni RSA spazi per l’affissione, accessibili a tutti e non soggetti a limiti di transito. Egli non deve autorizzare l’affissione, in quanto non ne ha il potere, né tanto meno può rimuovere testi e pubblicazioni, neanche qualora configurino un reato: in tal caso dovrà rivolgersi alle stesse RSA ed all’autorità giudiziaria, per l’individuazione dei soggetti responsabili. L’art.27, poi, attribuisce alle RSA il diritto di avere locali adibiti all’esercizio delle proprie attività: nel caso di unità produttive con più di 200 dipendenti, tali locali devono essere messi a disposizione dall’imprenditore permanentemente all’interno della stessa unità produttiva, o nelle immediate vicinanze; nel caso di aziende con meno di 200 dipendenti, i locali saranno messi a disposizione su richiesta delle RSA per le riunioni delle stesse, volta per volta.

Libertà di proselitismo e contributi sindacali

L’art.26 dello Statuto, al primo comma, garantisce ai lavoratori (a tutti i lavoratori, quindi è l’unico articolo del Titolo III che non rispetta il carattere selettivo imposto dall’art.19 per l’accesso a tali diritti)la libertà di svolgere opera di “proselitismo”, ossia un’opera volta alla propaganda, orale o scritta, alla raccolta di contributi ed iscrizioni ecc., all’interno dei luoghi di lavoro, sebbene da
essa non debba scaturire un pregiudizio per il normale svolgimento dell’attività azienda. Si tratta in tal caso di un pregiudizio concreto e non astratto, che incida notevolmente sullo svolgimento dell’attività lavorativa. Lo stesso art.26 tratta il tema dei contributi sindacali, ossia di quelle quote che ciascun lavoratore iscritto al sindacato deve a quest’ultimo, in forza della propria adesione. Un tempo essere venivano raccolte dai c.d. collettori di azienda, praticamente degli esattori dei sindacati che raccoglievano le quote tra gli iscritti, sullo stesso posto di lavoro. In seguito è stato attuato un meccanismo diverso: il contributo sindacale viene trattenuto alla fonte dall’imprenditore, che poi lo gira alle associazioni sindacali. Sebbene ciò fosse previsto già all’interno dello Statuto,
un referendum abrogativo del 1995 che ebbe esito positivo, eliminò tale previsione legislativa, senza effetti nella pratica, in quanto tale meccanismo opera anche in forza della contrattazione collettiva.

Il campo di applicazione del titolo III dello Statuto

Abbiamo visto come le norme del titolo II pongano in capo all’imprenditore un generale divieto di ostacolare la libertà sindacale, mentre le norme del titolo III prevedono un comportamento positivo dell’imprenditore. Tale comportamento, in realtà, in forza dell’art.35 dello Statuto, deve essere posto in essere solo all’interno di imprese medio-grandi, non essendo possibile pretendere dai piccoli imprenditori tali comportamenti positivi. L’intero titolo III, fatta eccezione per l’art.26 di portata generale e per l’art.27 per cui sono previsti limiti numerici, si applica solo alle unità produttive: si usa questo termine per indicare sedi, stabilimenti, filiali, uffici e reparti autonomi con più di 15 dipendenti. Si fa riferimento, quindi, alle dimensioni delle singole unità produttive, non all’impresa unitariamente considerata. L’art.35, tuttavia, prevede che i diritti del titolo III possano essere esercitati anche da una pluralità di piccole unità produttive operanti all’interno dello stesso territorio comunale. Facendo riferimento, inoltre, alle unità produttive di imprese, l’art.35 esclude dall’applicazione del titolo III i non imprenditori, il che è stato, ingiustamente, ritenuto plausibile dalla stessa Corte costituzionale, la quale ha fatto riferimento all’instabilità delle organizzazioni di tendenza con fini ideologici. In realtà non tutte le organizzazioni non imprenditoriali sono
organizzazioni di tendenza.

Diritti sindacali nel pubblico impiego

Il D.Lgs.165/2001 che ha privatizzato il pubblico impiego, ha previsto che i rapporti di lavoro pubblici siano soggetti alle norme legislative sul lavoro subordinato, compresa quindi la L.300/1970. Le norme del titolo III, quindi, si applicano anche al lavoro pubblico, tra l’altro senza il limite dei 15 dipendenti. Tuttavia sussistono delle differenze: anzitutto i diritti ai permessi di cui agli artt.23, 24 e 30, sono ripartiti, invece che tra tutte le RSA nella stessa misura, tra i diversi sindacati in proporzione al grado di rappresentatività (rappresentatività ponderata, e non presunta come avviene ancora per il settore privato). Inoltre il lavoratore dipendente pubblico, che ricopre una carica sindacale, ha diritto al distacco sindacale, in forza del quale egli non lavora ma continua a percepire la propria retribuzione, a differenza di ciò che avviene nel settore privato, dove viene attuata l’aspettativa non retribuita.

SEZIONE B: LA REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE

L’art.28 dello Statuto

L’art.28 dello Statuto è dedicato alla repressione della condotta antisindacale: se il titolo II garantisce la libertà sindacale ed il titolo III contiene una legislazione di sostegno che permette l’esercizio dell’attività sindacale, il titolo IV, che si apre con l’articolo suddetto, mira ad individuare un apparato processuale e sanzionatorio per rendere effettive le norme di cui abbiamo già parlato,
nonché per far rispettare il diritto di sciopero.

Le regole processuali (cenni)

L’art.28 dispone che dinanzi ad un comportamento del datore di lavoro mirato ad impedire o a
limitare la libertà sindacale e/o l’attività sindacale, nonché il diritto di sciopero, gli organismi locali delle associazioni sindacali possano fare ricorso dinanzi al giudice del lavoro del Tribunale del luogo in cui si è concretizzato il comportamento in questione. Dinanzi a tal giudice, il procedimento si divide in 2 parti, la seconda delle quali è meramente eventuale: durante la prima il giudice convoca le parti e predispone un contradditorio tra le stesse; una volta accertati i fatti, può, con decreto, stabilire che ci sia stata una condotta antisindacale, ed in tal caso prevederne la rimozione degli effetti, o che non ci sia stata. Le parti, comunque, entro 15 giorni potranno impugnare il decreto, ed in tal caso si addiverrà ad un procedimento ordinario, suscettibile di ricorso in appello ed in Cassazione, che si concluderà in tutti e tre i gradi con una sentenza, e non con un decreto.
Il decreto della prima fase, tuttavia, non perde efficacia sino al passaggio in giudicato della sentenza.

La condotta antisindacale

La condotta antisindacale si configura come un comportamento lesivo della libertà sindacale, dell’attività sindacale o del diritto di sciopero. Essa può essere attuata tanto dal datore di lavoro, tanto da soggetti che, all’interno dell’impresa, esercitino i poteri dell’imprenditore (dirigenti, capi reparto ecc). Il comportamento antisindacale viene individuato non in base alla sua struttura, bensì in base alla lesione degli interessi tutelati. Tra l’altro, anche un comportamento posto in essere nei confronti del singolo, e che abbia a che fare con la libertà/attività sindacale, può configurare un caso di violazione dell’art.28: in tal caso il singolo potrà intraprendere un’azione giudiziaria in solitudine, mentre il sindacato potrà esperire l’azione giudiziaria privilegiata prevista dall’art.28. E’ il caso della c.d. plurioffensività del comportamento, che si concretizza quando un atto del datore di lavoro, benché rivolto al singolo, colpisce anche l’interesse collettivo (es. trasferimento punitivo di un sindacalista, è come se il datore stesse dicendo “trasferisco lui, ma attenti voi”). L’antisindacalità, su cui il testo si sofferma fin troppo, si ha nel momento in cui il comportamento dell’imprenditore mira a reprimere la libertà sindacale o l’attività sindacale, e non semplicemente a contrastarla; mira, cioè, ad evitare il conflitto con i sindacati (licenziamento, allontanamento, negazione dell’assemblea), piuttosto che muoversi dentro il conflitto: rifiutare una trattativa con i sindacati non è condotta antisindacale, perché il datore di lavoro sta semplicemente manifestando che su quel particolare tema non c’è nulla da discutere; negare un’assemblea in cui si discuterà della trattativa, invece, è un comportamento antisindacale. L’antisindacalità di alcuni comportamenti, inoltre, è spesso prevista specificatamente dalla legge.


Legittimazione attiva

Legittimato attivamente, nell’azione giudiziaria di cui abbiamo parlato, è il sindacato. Esso, per poter esperire tale azione, deve essere un organismo locale di un’associazione nazionale. Sono pertanto esclusi i singoli lavoratori e le organizzazione prive di valenza nazionale, che potranno ricorrere alle azioni giudiziarie ordinarie. Ribadiamo che, secondo l’art.28, è sufficiente che si tratti di un’associazione sindacale nazionale, non già di una che abbia stipulato un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, requisito richiesto, invece, dall’art.19. La Corte costituzionale, inoltre, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art.28 nella parte in cui non permette ai singoli ed alle associazioni prive di un peso nazionale di ricorrere al procedimento accelerato di cui all’art.28: la Corte ha precisato come tali diritti siano solo ulteriori ed aggiuntivi rispetto a quelli concessi ai singoli ed alle associazioni sindacali non nazionali. Esse potranno ricorrere agli strumenti di tutela apposti dall’ordinamento, ma non vi è discriminazione priva di
fondamento.

L’interesse ad agire

L’art.28 dispone che il ricorso possa essere presentato dalle associazioni che vi abbiano interesse. Tuttavia va notato come è raro che un interesse a ricorrere, in tali casi, sia assente. Legittimate all’interesse, infatti, possono essere anche associazioni sindacali diverse da quella cui abbiano aderito i lavoratori lesi. La tutela dell’art.28, infatti, riguarda tutti i lavoratori, non lavoratori aderenti a determinati sindacati e difendibili solo dagli stessi. La carenza di interesse si avrà nell’unico caso in cui il ricorrente sia un sindacato tipico di un gruppo professionale, come ad esempio quello dei metalmeccanici, per sollevare l’antisindacalità di un comportamento posto in essere nell’ambito di un diverso gruppo professionale, come ad esempio i chimici.

L’apparato sanzionatorio

Abbiamo visto come il decreto nella prima fase del procedimento dinanzi al giudice del lavoro, così come l’eventuale sentenza durante la seconda fase, mirano a far cessare il comportamento antisindacale ed a rimuoverne gli effetti. Tuttavia il datore di lavoro potrebbe non adeguarsi a tale
decisione. Data la complessità di un eventuale processo di esecuzione, per far rispettare la sentenza lo stesso art.28 ha introdotto una sanzione penale a carico del datore di lavoro che non rispetti la decisione del giudice: oggetto del reato è l’inottemperanza, non l’azione antisindacale, punibile con l’ammenda o con l’arresto fino a tre mesi. Inoltre ultimamente è stata prevista un ulteriore sanzione: vengono meno tutte le agevolazioni fiscali di cui il datore di lavoro godeva in merito alla nuova occupazione.

La condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni

Anche le pubbliche amministrazioni, inforza del D.Lgs.165/2001 sono soggette all’applicazione delle norme dello Statuto dei lavoratori e pertanto anche all’art.28.







CAPITOLO SETTIMO – IL CONTRATTO COLLETTIVO

SEZIONE A: IL CONTRATTO COLLETTIVO

La determinazione delle condizioni di lavoro

Scopo primario del movimento sindacale è sempre stato quello di ottenere maggiori diritti, economici e normativi, a favore dei lavoratori. Per giungere a tale risultato, il movimento sindacale molto spesso ha dovuto fare pressione sugli organi legislativi, mentre altrettante volte si è dedicato ad una contrattazione, con le associazioni degli imprenditori, mirata alla determinazione delle condizioni di lavoro. Inizialmente tali contrattazioni riguardavano solo le retribuzioni (concordati di tariffa), mentre in un secondo momento hanno abbracciato un numero sempre maggiore di diritti.

Le prime riflessioni giuridiche sul contratto collettivo

Avremo sicuramente capito che il contratto collettivo è quel particolare contratto, inerente le condizioni di lavoro, stipulato tra le associazioni degli imprenditori ed i sindacati. Sin dalla prima comparsa dei contratti collettivi, si presentò il problema di rendere gli stessi inderogabili al momento della stipulazione dei contratti individuali. Le parti, infatti, e soprattutto i datori di lavoro, avrebbero potuto discostarsi da quanto previsto dai contratti collettivi: ecco perché in Francia ed in Germania, già nel biennio 1918-1919, il problema venne risolto dall’introduzione di una disciplina legislativa, la quale avrebbe imposto il rispetto dei contratti collettivi, prevedendo un sistema sanzionatorio in caso di inottemperanza. In Italia tale disciplina arrivò solo nel 1926, con la legge che pose le basi del sistema corporativo. Nell’Italia pre-corporativa, invece, in assenza di una disciplina di legge, vennero elaborate diverse teorie per rendere inderogabile la disciplina dei contratti collettivi: la più importante fu quella di Giuseppe Messina, grande civilista del tempo.
Egli riprese la teoria di un altro giurista, lo svizzero Lotmar, il quale aveva previsto che l’inderogabilità dei contratti collettivi provenisse dal fatto che i sindacati (soggetto collettivo) stipulassero tale contratto in rappresentanza dei lavoratori: egli, però, si espose da subito alle critiche di chi, conoscendo bene il diritto del tempo, obiettò che se tale contratto fosse scaturito da soggetti rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori, le parti del contratto individuale (e quindi sempre imprenditore e lavoratore) avrebbero potuto derogare quanto pattuito a livello collettivo. Messina, proprio prendendo in considerazione questa obiezione, introdusse la teoria secondo cui le clausole apposte nel contratto collettivo, figurando come obbligatorie, in caso di inottemperanza, avrebbero fatto strada ad un’azione risarcitoria, alternativa rispetto ad una sostituzione automatica.

Il contratto collettivo corporativo

Nel 1926 venne introdotto il sistema corporativo. Esso prevedeva che ogni categoria di datori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti, avesse una propria associazione, riconosciuta come persona giuridica di diritto pubblico tramite un decreto di riconoscimento da parte dello Stato. I contratti collettivi avevano valore per tutti, iscritti e non iscritti ai sindacati e potevano essere derogati dalle parti solo in meglio e mai in peggio. Qualora, tra l’altro, le parti non raggiungessero un accordo, a ciò suppliva la Magistratura del lavoro. Notiamo, quindi, come il problema
dell’inderogabilità dei contratti collettivi non esistesse, essendo obbligatoria la loro osservanza. Il codice del 1942, inoltre, rafforzò quest’idea ponendo le norme corporative tra le fonti del diritto. Il venire meno del sistema corporativo, tuttavia, non privò i lavoratori dei diritti sino ad allora riconosciuti.


Il contratto collettivo e l’art.39 Cost.

Una volta venuto meno l’ordinamento corporativo, venne subito ristabilita la libertà sindacale e si ripropose nuovamente il problema dell’inderogabilità del contratto collettivo stipulato dalle parti sociali. Il legislatore costituente, in realtà, credeva di aver risolto tale problema tramite la previsione del comma 4 dell’art.39 Cost., il quale prevedeva che i sindacati registrati potessero stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes per l’intera categoria rappresentata. In realtà la mancata attuazione dell’intera norma costituzionale, per i motivi già esaminati, portò non pochi problemi, in quanto limitava di fatto il potere del legislatore ordinario.

La legge 741/1959 (legge Vigorelli)

L’obiettivo da raggiungere, quindi, era quello di far assumere un’efficacia generale ai contratti collettivi, i quali sarebbero stati applicati nei confronti di tutti i lavoratori di una categoria, non soltanto di quelli iscritti ai sindacati firmatari di un determinato contratto. In altri Paesi europei,
come Francia e Germania, il problema venne risolto tramite l’emanazione di una disciplina legislativa in materia. In Italia, la rigidità dell’art.39, limitava il potere del legislatore, di fatto impedendogli di rendere i contratti collettivi applicabili a tutti. Un modo di aggirare la norma costituzionale venne trovato dalla legge Vigorelli, la 741/1959, la quale concesse una delega al Governo per emanare, entro il periodo di tempo di un anno, decreti legislativi che fissassero i trattamenti minimi salariali e normativi per ciascuna categoria lavorativa, dovendo rifarsi obbligatoriamente ai contratti collettivi in materia. I decreti furono più di mille, ma ben presto ci si rese conto che i contratti collettivi apparivano molto lontani dalla tecnica legislativa e pieni di ambiguità e lacune. Alla scadenza del periodo di delega, essa venne prorogata per 15 mesi ed estesa ai contratti collettivi stipulati nei 10 mesi successivi alla proroga.

Alcuni principi costituzionali sul contratto collettivo

La Legge Vigorelli venne da subito posta al vaglio della Corte Costituzionale, la quale pur affermando la costituzionalità della legge, sancì l’incostituzionalità della legge di proroga (1027/1960)nella parte in cui estendeva la delega ai contratti collettivi stipulati nei 10 mesi successivi alla proroga stessa. La Corte costituzionale, in tal modo, sancì alcuni principi fondamentali, tra i quali ne emerse uno di maggiore importanza: la procedura prevista nell’art.39 per far acquisire efficacia generale ai contratti collettivi non poteva essere sostituita o affiancata da un metodo diverso, che sarebbe risultato illegittimo.

SEZIONE B: IL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE

Rilevanza e natura giuridica

Abbiamo visto come, successivamente alla caduta del sistema corporativo, sia stata ripristinata la libertà sindacale e, con essa, la natura privatistica dei sindacati e dei contratti collettivi, data anche la mancata attuazione dell’art.39. Inoltre i decreti delegati emanati in attuazione della L.741/1959 sono divenuti, col tempo, obsoleti ed i contratti corporativi ancora in vigore sono limitatissimi. Questo fa si che l’unico contratto collettivo che possiamo prendere in considerazione è quello definito “di diritto comune o post-corporativo”, ossia il contratto posto in essere dall’autonomia collettiva grazie al potere di autoregolamentazione dei soggetti di diritto privato (ricordiamo che si tratta pur sempre di associazioni non riconosciute nella maggior parte dei casi). Il contratto collettivo di diritto comune non può, come invece avveniva per i contratti corporativi, né avere natura pubblicistica (abbiamo ribadito come sia frutto dell’autonomia privata), né tanto meno essere preso in considerazione come fonte del diritto, almeno sotto il punto di vista strutturale. Sotto il punto di vista funzionale, infatti, lo stesso legislatore lo qualifica molto spesso come fonte del diritto: è il caso del D.Lgs.40/2006 che ha introdotto, tra i motivi di ricorso per cassazione, oltre alla violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, anche la violazione o la falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Notiamo, quindi, come i contratti collettivi siano, in questo caso ma non è l’unico, equiparati alle norme di diritto.

La funzione normativa

Il contratto collettivo, per la sua importanza in ambito sociale, pur non godendo di una disciplina codicistica specifica, ha assunto un ruolo fondamentale all’interno del nostro ordinamento. Inizialmente esso serviva a fissare solo e solamente le condizioni minime normative ed economiche da applicare nei contratti individuali di lavoro. Per questo è sempre stato definito come “contratto normativo”, ossia come contratto che fissa i contenuti di una futura produzione contrattuale, vincolando le parti ad attenersi a quanto concordato. Un’altra parte della dottrina, invece, ha sempre visto il contratto collettivo come un contratto tipo, ossia come un contratto che fissa delle clausole ordinatamente raccolte in uno schema. Sembra più plausibile la teoria del contratto normativo, in quanto il contratto tipo non obbliga le parti ad attenersi allo schema di clausole previsto, prevedendo una possibilità di deroga.

L’inderogabilità in pejus

Abbiamo visto come il contratto collettivo fissi, quindi, delle clausole normative ed economiche generali alle quali il contratto individuale dovrà attenersi. Il rapporto tra contratto collettivo ed individuale è regolato dal meccanismo dell’INDEROGABILITA’ IN PEJUS DI NATURA REALE: qualora le parti, nella stipulazione del contratto individuale, dovessero prevedere un trattamento economico/normativo peggiore per il lavoratore rispetto a quello previsto dal contratto collettivo di riferimento, vedrebbero disapplicati i propri accordi, che verrebbero sostituiti
automaticamente dalle clausole del contratto collettivo. Ciò vuol dire che l’inderogabilità ha natura reale, conducendo alla sostituzione automatica, e non semplicemente obbligatoria, il che comporterebbe una mera obbligazione risarcitoria. Per molto tempo la dottrina si è scervellata su come fornire una motivazione all’operatività della natura reale dell’inderogabilità, senza addivenire, nonostante l’apporto di vari autori di notevole rilievo, ad una conclusione (pagina 136 e 137 se vi interessano le varie teorie). Il problema dell’inderogabilità in pejus ha trovato, finalmente, una precisa definizione legislativa con la modifica dell’art.2113 c.c. ad opera della L.533/1973 di riforma del processo del lavoro: all’interno di tale articolo è previsto che le rinunzie e le transazioni,
che hanno ad oggetto diritti inderogabili del lavoratore attribuiti allo stesso dalle legge o DAI CONTRATTI COLLETTIVI concernenti i rapporti di cui all’art.409 c.p.c., non sono valide. Il legislatore, quindi, ha sancito l’invalidità degli atti con i quali il prestatore dispone di propri diritti riconosciuti dagli accordi collettivi.

La derogabilità in melius

Mentre nel contratto individuale è prevista l’inderogabilità in pejus delle clausole del contratto collettivo, esiste la possibilità che le parti, all’interno del proprio accordo, stabiliscano clausole di maggior favore per il lavoratore rispetto a quelle del contratto collettivo. Una previsione di tal genere è possibile non solo in forza dell’art.2077 c.c. che lo prevede esplicitamente, ma anche in forza dell’art.2113 c.c. che prevede l’inderogabilità in pejus. Di difficile soluzione è, invece, il problema della comparazione dei trattamenti: può capitare, infatti, che nel confronto tra contratto collettivo e contratto individuale, si riscontrino alcuni elementi di maggior favore per il lavoratore ed altri peggiori rispetto al contratto collettivo. In tal caso la dottrina, per trovare una soluzione a
come si debba operare in questo caso, si divide tra i sostenitori della tesi del conglobamento, secondo cui occorre tener conto del trattamento complessivo del lavoratore, ed i sostenitori della tesi del cumulo, secondo cui andrebbero raffrontate la varie clausole e dovrebbero prevalere solo le migliori per il lavoratore. Sono state prese in considerazione, inoltre, soluzione mediane, che non tengano conto né dei trattamenti complessivi, né delle singole clausole, ma solo dell’ambito di ciascun istituto.

Efficacia soggettiva e categoria contrattuale

Un problema del contratto collettivo di diritto comune è quello dell’efficacia soggettiva, la quale si estende solo agli iscritti alle associazioni stipulanti: solo chi aderisce ad un sindacato o ad un’associazione d’imprenditori, infatti, conferisce il c.c. mandato rappresentativo, ossia il mandato a stipulare contratti collettivi.

Efficacia soggettiva nella giurisprudenza

L’efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune impone che le condizioni previste nello stesso siano applicabili solo ai soggetti aderenti alle associazioni firmatarie. Tuttavia, negli anni, ad opera tanto della giurisprudenza quanto del legislatore, l’ambito di applicazione del contratto collettivo è stato esteso anche a coloro non iscritti ad alcun sindacato o associazione di imprenditori. Anzitutto la Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro, aderente ad un’associazione firmataria di un contratto collettivo, deve obbligatoriamente applicare le condizioni di tale accordo a tutti i contratti individuali, non potendo attuare una discriminazione tra lavoratori iscritti ai sindacati e lavorato non iscritti. Il problema, invece, si pone nel caso di imprenditori non aderenti ad alcuna associazione. Se l’imprenditore che stipula il contratto individuale formula un richiamo alla contrattazione collettiva o, tramite un proprio comportamento concludente, preveda l’applicazione di condizioni previste dai contratti collettivi, il problema non si pone, anche se egli non aderisce ad alcuna associazione firmataria di contratti collettivi. L’imprenditore, però, potrebbe tranquillamente, non avendo aderito ad alcuna associazione, non dare attuazione alle condizioni previste nel contratto collettivo di categoria. La Cassazione, però, richiamando gli artt.36 della Costituzione, inerente il diritto ad una retribuzione proporzionata al lavoro e sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa, e 2099 c.c. comma 2, inerente la determinazione della retribuzione da parte del giudice secondo equità in mancanza di accordo tra le parti, ha previsto che qualora l’imprenditore fissi una retribuzione che non rispetti l’art.36 Cost., essa non può ritenersi valida ed il giudice chiamato a stabilirla secondo equità, dovrà rifarsi quasi obbligatoriamente alla contrattazione collettiva.

L’estensione dell’efficacia soggettiva nella legislazione

Anche il legislatore, al pari della giurisprudenza, si è preoccupato di estendere l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, affinché esso possa regolare l’intero mercato del lavoro. Un intervento diretto del legislatore, tuttavia, sarebbe inammissibile, in quanto risulterebbe lesivo dell’unica
procedura per ottenere una funzione di tal tipo del contratto collettivo, quella prevista dall’art.39 Cost. Il legislatore, quindi, ha dovuto muoversi diversamente, anzitutto prevedendo, all’interno dell’art.36 dello Statuto, che le amministrazioni e gli enti pubblici, all’interno di provvedimenti di concessione di agevolazioni e benefici finanziari e creditizi a favore di imprenditori e nei capitolati d’appalto di opere pubbliche, debbano obbligatoriamente prevedere una clausola che imponga all’imprenditore o all’appaltatore di applicare, nei confronti dei propri lavoratori, condizioni normative ed economiche non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi. In tal modo potranno beneficiare dei benefici di cui sopra solo coloro che si attengano alla contrattazione collettiva e qualora ciò non avvenga, un provvedimento della pubblica amministrazione revocherà i benefici e, nei casi più gravi, escluderà il responsabile da agevolazioni ed appalti per un periodo di
tempo fino a 5 anni. Il legislatore, inoltre, all’interno del D.Lgs.163/2006 in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ha previsto che l’imprenditore che stipuli contratti di tal tipo con la pubblica amministrazione, sia tenuto ad osservare il trattamento economico e normativo, nei confronti dei propri dipendenti, previsto dalla contrattazione collettiva. Egli risulta, tra l’altro, responsabile in solido con i sub-appaltatori qualora essi non si attengano a tale previsione. Mentre, quindi, con l’art.36 dello Statuto viene posto un obbligo a carico della pubblica amministrazione di inserire una clausola, in questo caso è lo stesso imprenditore che deve attenersi al rispetto del contratto collettivo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha, però, espresso parere negativo nei confronti di una legge simile all’interno dello Stato tedesco: la Corte ha precisato che, in tal caso, ci sarebbe una violazione delle norme in tema di libera circolazione di servizi, in quanto
un’impresa di uno Stato membro non potrebbe applicare, ai propri lavoratori, le condizioni economiche e normative di maggior favore del proprio Paese d’origine, ritrovandosi così a dover applicare le condizioni del contratto collettivo. In realtà sia la dottrina, quanto il PE, si sono opposti a tale pronuncia giudiziale: va sottolineato come, se si dovesse osservare la previsione della Corte, si andrebbe incontro ad un regime discriminatorio, in quanto l’impresa dello Stato membro si troverebbe ad osservare le condizioni del contratto collettivo, mentre l’impresa di uno Stato diverso potrebbe continuare ad applicare una normativa maggiormente favorevole.

Le altre funzioni, in particolare quella obbligatoria

Abbiamo visto come causa principale del contratto collettivo sia quella NORMATIVA, ossia quella che mira all’imposizione di condizioni economiche e normative minime, le quali devono essere osservate dai contratti individuali. Ma non si può dire che la funzione normativa sia l’unica del contratto collettivo: esso, molto spesso, instaura rapporti obbligatori che non fanno capo alle parti
del contratto individuale, bensì ai soggetti collettivi. Ecco, quindi, che il contratto collettivo assume un’altra funzione, quella OBBLIGATORIA: è il caso del rinvio da un livello contrattuale ad un altro per la negoziazione di determinati istituti. Mentre i problemi inerenti la funzione normativa riguardano solo il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale, l’inadempimento delle clausole obbligatorie comporta una responsabilità dei soggetti collettivi (per esempio la responsabilità dell’associazione sindacale a livello provinciale, cui era stato deferito un compito, poi non assolto). Non rare, recentemente, sono anche le clausole del contratto collettivo che prevedono
l’istituzione di enti bilaterali per la gestione di alcuni istituti contrattuali (es. Casse edili): si parla in tal caso di funzione ISTITUZIONALE. Quando, invece, l’accordo sindacale va a risolvere un singolo problema di gestione aziendale, si parla di funzione GESTIONALE. In sintesi, il contratto collettivo non può e non deve avere solo una funzione normativa.

Il dovere di pace sindacale ed il dovere di influenza

L’accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil del 15 aprile 2009, inerente
l’attuazione dell’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, ha introdotto un obbligo di “pace sindacale”, il quale prevede che, nei sei mesi precedenti la scadenza del contratto nazionale e nel mese successivo, le parti non assumano iniziative unilaterali, né diano luogo ad azioni dirette. Questo vuol dire che, con la conclusione del contratto collettivo, le parti si obbligano, solo e solamente per le materie concernenti il contratto in discorso, ad attuare una tregua, ossia a far cessare lo stato di conflitto. Ovviamente tale stato potrebbe ripristinarsi per una diversa ragione. Va sottolineato come gli effetti delle clausole di tregua si ripercuotano solo sulle parti
stipulanti, ossia sui sindacati e sulle associazioni degli imprenditori, e non direttamente sui lavoratori, che conservano tutti i diritti a loro concessi, ivi incluso quello di sciopero. Tali clausole, quindi, hanno un effetto obbligatorio ed in alcun modo normativo. Altro dovere concernente la stipula di un contratto collettivo è quello “di influenza”: le parti firmatarie devono fare in modo che i propri associati applichino il contratto, senza discostarsene in alcun modo.

La c.d. procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore ed il contratto gestionale

Abbiamo già detto che clausole contrattuali di natura obbligatoria (che fanno nascere un diritto in capo alle parti firmatarie) possono condurre alla conclusione di un contratto collettivo gestionale, ossia di un contratto che miri a risolvere un problema di gestione aziendale (es. licenziamenti o momentanea crisi). Non abbiamo, però, visto in che modo tali clausole possano comportare la conclusione di un contratto gestionale. L’apposizione di clausole di natura obbligatoria può comportare l’obbligo, per l’imprenditore, di consultare le rappresentanze sindacali prima di prendere un provvedimento con il quale eserciterà il proprio potere di gestione: egli non solo ha
l’obbligo di informazione nei confronti dei sindacati, ma deve anche, su richiesta degli stessi, accettare un incontro per esaminare il problema: durante tutto il periodo di esame da parte dell’imprenditore e dei sindacati, il potere del datore di lavoro è sospeso, ma qualora non si dovesse raggiungere un accordo, esso ritornerà integro e l’’imprenditore potrà benissimo esercitarlo. L’atto, dunque, risulta illegittimo solo se non vengono rispettati gli obblighi previsti dai contratti collettivi o dalla legge, ma risulta pienamente valido se esercitato dopo l’espletamento di tutti i doveri. Quindi non è detto che sempre si giunga alla conclusione di un contratto gestionale con cui risolvere il problema. La complicazione del processo decisionale dell’imprenditore, per far si che i sindacati
possano intervenire prima che un atto del potere gestionale venga posto in essere, prende il nome di “procedimentalizzazione del potere imprenditoriale”.

L’efficacia soggettiva del contratto gestionale

Quindi il contratto azienda può avere anche una funzione gestionale, ossia con esso può essere concordato un provvedimento di gestione del personale che vada a risolvere un problema dell’azienda, o quanto meno ad attenuarlo. Tale tipo di contratto (quello gestionale) non comporta, il più delle volte, benefici per i lavoratori, ma solo sacrifici (es. riduzione dell’orario lavorativo e della retribuzione pur di non andare incontro ai licenziamenti), derogando molto spesso a quanto previsto dai contratti collettivi: in tal caso il contratto collettivo non ripercuote i propri effetti su quelli individuali.

Contratti collettivi espressamente previsti dalla legge

La disciplina del contratto collettivo assume rilevanza giuridica in forza dell’art.1322 c.c. inerente l’autonomia contrattuale delle parti. Diversamente rilevanza giuridica può essere riconosciuta dalla stessa legge. In molti casi, infatti, il legislatore, nel disciplinare la materia del lavoro, può prevedere espressamente un rinvio ai contratti collettivi per ciò che concerne deroghe, sostituzioni o integrazioni della disciplina legislativa emanata, o addirittura prevedere che i datori di lavoro possa
usufruire di taluni istituti o rapporti, solo laddove raggiunga un accordo con le organizzazione sindacali (funzione autorizzatoria della contrattazione collettiva). Un esempio lo ritroviamo in tema di orario lavorativo, il quale non può superare le 40 ore settimanali, salvo che i CONTRATTI COLLETTIVI NON PREVEDANO che tale quantità sia una media di più settimane. Ecco quindi che il legislatore prima fissa la norma e poi ne permette la deroga. Ovviamente tale potere spetta solo ai sindacati maggiormente rappresentativi, e ciò non viola l’art.39 Cost, né tanto meno il principio di eguaglianza di cui all’art.3 Cost., perché, come abbiamo visto in precedenza, il legislatore attribuisce maggior poteri alle organizzazione sindacali più rappresentative, ma non lede
in alcun modo la libertà sindacale delle organizzazioni minori. Quando la legge rinvia al contratto collettivo per la deroga di una determinata fattispecie, si può parlare di RINVIO PROPRIO; quando, invece, il legislatore si astiene totalmente dal disciplinare una fattispecie, rimettendola alle decisioni della contrattazione collettiva, si parla di RINVIO IMPROPRIO: in realtà, imprenditori e sindacati, in forza della stessa libertà di contrattazione collettiva, potrebbero accordarsi sulla materia, anche in assenza di un’autorizzazione del legislatore. Va detto, però, che tale potere deve essere garantito a tutte le organizzazioni sindacali, anche a quelle minori, perché qualora fosse garantito solo a quelle più rappresentative, tale attribuzione sarebbe incostituzionale, violando la
libertà sindacale di porre in essere una contrattazione.


CAPITOLO OTTAVO – LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

SEZIONE A: EVOLUZIONE STORICA: SOGGETTI, LIVELLI E PROCEDURE

Premessa

Per “contrattazione collettiva” s’intende il processo attraverso il quale i sindacati dei lavoratori e le associazione dei datori di lavoro (o i singoli datori), l’uno difendendo le prerogative dei lavoratori, l’altro resistendo alle pressioni sindacali, definiscono la regolamentazione dei rapporti, individuali o collettivi, di lavoro. Nel contratto collettivo che ne scaturisce, dunque, vengono contemperati i vari interessi in gioco nel conflitto industriale. La contrattazione collettiva può ricomprendere solo la stipulazione del contratto in se stesso, ed in tal caso si parla di contrattazione statica, oppure può anche prevedere la disciplina di attuazione del contratto, e si parla di contrattazione dinamica. La contrattazione collettiva, inoltre, si svolge a più livelli organizzativi dei soggetti collettivi: si parla in tal caso di struttura contrattuale. Solitamente i livelli sono 3 e portano a diversi tipi di accordi:Accordo interconfederale: con esso vengono disciplinati singoli istituti quando si renda necessaria una regolamentazione unitaria da applicare a tutti i lavoratori di diverse categorie
produttive. Prendono parte a tale accordo le tre grandi Confederazioni sindacali e, solitamente, Confindustria;Contratto collettivo nazionale di categoria (ccnl): viene stipulato con periodicità fissa, solitamente ogni 3 o 4 anni, e riguarda singole categorie produttive. In esso vengono fissati i trattamenti minimi economici e normativi da applicare in quel settore, oltre ad essere previste le relazioni tra stipulanti e loro articolazioni organizzative;Contratto decentrato: si tratta di un contratto stipulato dai soggetti collettivi a livello territoriale, solitamente provinciale o regionale, oppure, addirittura, di un contratto stipulato a livello aziendale, che vada ad integrare e
completare la disciplina dettata nel contratto collettivo di categoria. Una struttura contrattuale, quindi, si dice centralizzata o decentrata quando vi è una ripartizione più o meno ampia di competenze e di materie trattate rispetto all’ambito di applicazione; al contrario una struttura si dice bipolare, quando entrambi i livelli dell’ambito di applicazione hanno funzioni rilevanti e distinte. Ovviamente è facile dedurre che quanto più è in crisi il mondo del lavoro, tanto più occorrerà una centralizzazione della contrattazione, per far fronte ai problemi di crisi dell’industria, di disoccupazione, di recessione economica, di arretratezza tecnologica; se, invece, il mondo del lavoro procede nel migliore dei modi, o comunque riesce a mantenersi stabile in un determinato
arco di tempo, si attuerà maggiormente un sistema decentralizzato.

Evoluzione della contrattazione collettiva. Dal dopoguerra ai primi anni 60: la contrattazione articolata

Dopo la caduta del sistema corporativo, sappiamo bene che venne ristabilita la libertà sindacale, che operava, inizialmente, tramite una struttura contrattuale del tutto centralizzata: essa tendeva, più che altro, a fissare i trattamenti minimi ed essenziali a livello economico e normativo dei rapporti di lavoro. Si trattava, è appena il caso di dirlo, di una contrattazione meramente interconfederale, che durò fino all’inizio degli anni 60, quando il contratto nazionale di categoria iniziò a diventare, grazie anche al boom economico, il perno centrale della contrattazione collettiva. Tuttavia rimaneva un po’ isolata la contrattazione a livello aziendale, attuata dalle sole commissioni interne. Il
livello aziendale venne del tutto riconosciuto all’interno di un apposito Protocollo del 5 luglio 1962, firmato dalle federazioni di categoria dei metalmeccanici, dall’Intersind e dall’Asap (associazioni che rappresentavano aziende a partecipazione statale), che diede luogo alla c.d. contrattazione articolata, fondata su una struttura contrattuale composta da 3 livelli, quello nazionale di categoria, quello di settore e quello aziendale. Il contratto nazionale di categoria avrebbe dovuto fissare le materie e gli istituti di competenza dei livelli inferiori, tramite apposite clausole di rinvio; il secondo livello, quello inerente il settore, non venne mai applicato; il terzo livello, quello aziendale, era rappresentato dal sindacato provinciale di categoria, e non più dai lavoratori interni dell’azienda. Il
riconoscimento del livello azienda comportò l’accettazione delle c.d. clausole di tregua, per tenere a bada gli imprenditori ed accontentarli.

Il ciclo 1968-1973 e la contrattazione non vincolata

Nel 1967, sulla spinta del movimento operaio, si avviò un nuovo ciclo contrattuale: i lavoratori avevano bisogno di rappresentanze aziendali in grado di tener conto della propria situazione a livello specifico e di migliorarla. Nascevano rivendicazioni contrattuali del tutto nuove, quali la parificazione normativa tra operai ed impiegati, la riduzione dell’orario e dello straordinario. Nel contratto nazionale metalmeccanico del 1969 non si riuscì a raggiungere alcun accordo in merito alle competenze della contrattazione aziendale, e ciò fece venire meno il sistema della contrattazione articolata, permettendo l’introduzione della contrattazione NON VINCOLATA, nella quale i due livelli, aziendale e nazionale di categoria, avrebbero goduto di autonomia. La contrattazione aziendale divenne, quindi, del tutto assestante, fungendo nella maggior parte dei casi da locomotiva di quella nazionale ed eliminando, per molti anni, il livello interconfederale. Le nuove rappresentanze aziendali, costituite dai delegati e dai consigli di fabbrica, introducevano all’interno delle grandi imprese una sempre crescente tutela del lavoratore; spettava, poi, alla contrattazione nazionale estendere tali conquiste a tutti i settori ed a tutte le imprese. Si attuò, in poche parole, un sistema bipolare, in cui la contrattazione aziendale e quella nazionale godevano di una propria indipendenza. Si toccò il punto massimo di decentramento contrattuale.

Gli anni dal 1975 al 1990: ricentralizzazione e nuovo decentramento

La crisi petrolifera dei primi anni 70 coinvolse l’intera economia mondiale, riversandosi soprattutto sull’occupazione e pretendendo dei profondo mutamenti tecnologici ed organizzativi del sistema produttivo. La politica sindacale divenne politica di mantenimento dell’occupazione e la crisi in atto
comportò una nuova centralizzazione della contrattazione collettiva e della struttura contrattuale. Il livello interconfederale divenne nuovamente l’attore principale degli accordi contrattuali, gettando nell’ombra, per un periodo consistente, sia la contrattazione nazionale di categoria, sia quella aziendale. Il Protocollo del 22 gennaio 1983, che introdusse la c.d. contrattazione triangolare (Stato, sindacati ed imprese), introdusse il principio di non ripetibilità della contrattazione aziendale, il quale impediva a quest’ultima una contrattazione su materie già regolate ad altri livelli. Solo nella seconda metà degli anni 80 fu possibile favorire nuovamente il decentramento contrattuale, in quanto la necessità di reggere la concorrenza internazionale portò ad una forte flessibilità
organizzativa e ad una riduzione della rigidità nella regolazione dei rapporti di lavori (deregulation).




Il Protocollo 23 luglio 1993 e la riforma della struttura contrattuale

All’inizio degli anno 90 sono stati stipulati due accordi di fondamentale importanza tra il Governo e le parti sociali (accordi triangolari): quello del 31 luglio 1992, che ha abolito la c.d. scala mobile introdotto da un accordo interconfederale del 1975 e che prevedeva l’indicizzazione dei salari al costo della vita, e quello del 23 luglio 1993, il quale ha ridisegnato completamente la struttura contrattuale e previsto una nuova politica dei redditi e dell’occupazione (per la sua importanza è stato definito come la carta costituzionale delle relazioni industriali). Ci occupiamo, in questo capitolo, delle sole innovazioni a livello di struttura contrattuale introdotte dal secondo dei due
Protocolli citati. Nel Protocollo del 1993 vennero confermati i due livelli di contrattazione, quello nazionale offerto dai contratti di categoria e quello aziendale/territoriale. La durata dei contratti venne prolungata da 3 a 4 anni sotto il profilo normativo, ma venne previsto un adeguamento biennale per la parte retributiva: venendo meno il sistema della scala mobile, infatti, occorreva, ogni due anni, adeguare le retribuzioni all’inflazione programmata per il biennio successivo ed a quella passata, qualora non fosse stata in linea con le previsioni del precedente adeguamento. Alla
contrattazione decentrata, alla quale era imposta la clausola di non ripetibilità, venne
riconosciuto un compito di integrazione delle retribuzioni: essa avrebbe dovuto prevedere i c.d. premi di risultato, in base ai quali l’aumento delle retribuzioni sarebbe dipeso dai miglioramenti della produttività. Era comunque il contratto nazionale di categoria ad occuparsi della ripartizione delle competenze tramite le già citate clausole di rinvio. Vennero, però, previste due ulteriori clausole: la prima prevedeva che, ai sindacati firmatari del contratto nazionale di categoria, spettassero un terzo dei componenti delle RSU; la seconda attribuiva il potere di contrattazione aziendale alle RSU e, contemporaneamente, alle strutture territoriali dei sindacati firmata del contratto nazionale di categoria. Quindi, se da un lato la contrattazione decentrata si trovava in una
posizione gerarchicamente inferiore alla contrattazione nazionale, in quanto era quest’ultima ad attribuirle delle competenze, da un altro punto di vista la contrattazione decentrata assumeva una propria autonomia di competenza su determinati punti e materie: si trattava del modello di struttura contrattuale fondato sul decentramento controllato e coordinato della contrattazione collettiva. Per snellire il procedimento di rinnovo dei contratti, inoltre, venne previsto che, nei 3 mesi precedenti la scadenza del contratto e fino ad un mese dopo, il sindacato non potesse proclamare uno sciopero e che, qualora ci fosse stato qualche ritardo, sarebbe stata prevista un’indennità di vacanza contrattuale a favore dei lavoratori. In realtà la nuova struttura contrattuale mostrò da subito qualche lacuna in merito al ruolo della contrattazione aziendale/territoriale: solo nelle medie-grandi imprese si ottenevano degli aumenti delle retribuzioni come premi di risultato, mentre nelle piccole e piccolissime imprese, che comprendevano la maggior parte dei lavoratori italiani, tale sistema non riceveva applicazione, per l’assenza o la scarsa forza delle rappresentanze sindacali.

Accordo quadro del 22 gennaio 2009

Ricapitoliamo le lacune del sistema previsto dal Protocollo del 1993: i contratti non venivano rinnovati secondo le scadenze e molto spesso il tasso di inflazione programmata risultava molto distante dalla reale inflazione; la contrattazione decentrata era limitata alle sole grandi o al massimo medie imprese, mentre risultava assente o impotente nelle piccole imprese, di fatto comportando un’assenza anche del premio di risultato e, di conseguenza, un mancato adeguamento delle retribuzioni. Questi motivi hanno condotto ad un nuovo negoziato sulle regole di contrattazione collettiva, costituito dall’Accordo quadro del 22 gennaio 2009, inerente la riforma degli assetti contrattuali e non firmato dalla Cgil (si tratta di un accordo separato): con tale accordo si sperimenterà, per un periodo di 4 anni, un nuovo modello contrattuale comune al settore privato ed a quello pubblico, sebbene con qualche differenza. La durata dei contratti viene riportata a 3 anni,
ma permangono i due livelli di contrattazione, nazionale di categoria ed aziendale/territoriale, con la previsione da parte di quello nazionale delle competenze di quelli territoriali. Tra l’altro la clausola di ripetibilità viene estesa alla totalità degli istituti e non solo a quelli retributivi, come avveniva in precedenza. Per ciò che concerne le retribuzioni, si abbandona il “tasso di inflazione programmata” come indicatore di crescita dei prezzi al consumo, e si prende in considerazione un nuovo indice
previsionale, stabilito da un soggetto terzo ed estraneo alle parti sociali, costruito sulla base dell’IPCA (indice prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia). Tale IPCA, per le amministrazioni pubbliche, assume il ruolo di mero parametro di riferimento. Vengono confermati i premi di risultato o per obiettivi, previsti dai contratti decentrati, ma viene previsto che la contrattazione nazionale definisca “l’elemento economico di garanzia”, una somma che le aziende devono erogare in mancanza della previsione di un premio di risultato. Alla contrattazione decentrata viene concesso il potere di derogare in pejus la disciplina economica e normativa prevista dai contratti nazionali, qualora ciò sia necessario per fronteggiare situazioni di crisi territoriali o aziendali (clausole di uscita o di apertura).

Il processo di stipulazione e di rinnovo del contratto collettivo

Compito della contrattazione nazionale di categoria e di quella decentrata è il rinnovo dei contratti collettivi, per tale intendendosi la stipulazione di un nuovo contratto che aggiorni la disciplina del precedente. Le trattative tra le parti sociali (da un lato i sindacati e dall’altro gli imprenditori o le associazioni di imprenditori) iniziano qualche mese prima della scadenza del contratto: le organizzazioni sindacali presentano la c.d. piattaforma rivendicativa, in cui sono contenute le richieste di modifica del contratto in scadenza e la quale è stata approvata da varie assemblee sindacali. Qualora le trattative si prolunghino oltre il periodo di tregua sindacale, le organizzazioni
sindacali possono proclamare degli scioperi ed in base alla partecipazione dei lavoratori agli stessi, si potrà constatare la necessità di accettare le rivendicazioni dei sindacati (qualora l’affluenza di lavoratori sia stata consistente) o la necessità di ridurre le pretese sindacali. Se il conflitto degenera e diventa particolarmente aspro, possono intervenire al tavolo delle trattative componenti del Governo (il ministro del lavoro o quello competente in materia) o componenti degli enti territoriali, qualora si tratti di contrattazione decentrata. Una volta raggiunto l’accordo tra le parti, lo stesso viene sottoposto all’approvazione dei lavoratori tramite assemblee o, addirittura, referendum
(democrazia di ratifica), almeno che non si tratti di accordo separato, a cui non hanno preso parte tutte e tre le confederazioni. Può capitare, talune volte, che gli stessi sindacati entrino in contrasto tra loro, o perché si dichiarano rappresentativi della medesima categoria, o perché vi è un conflitto di giurisdizione, qualora vi sia dissenso sulla definizione dell’ambito del contratto: in tal caso il conflitto andrà risolto o tramite un accordo tra i sindacati, o tramite il riconoscimento, da parte degli imprenditori, della reale controparte contrattuale, perché più forte in termini di rappresentatività. Qualora sia stato concluso, tra l’altro, un contratto collettivo separato, a cui quindi non tutte le
confederazioni hanno preso parte, la confederazione esclusa potrà decidere di aderirvi in un secondo momento: ma si tratterà di un contratto per adesione, in quanto non potrà essere apportata alcuna modifica all’accordo.

SEZIONE B: RAPPORTI TRA I CONTRATTI COLLETTIVI

Premessa

Un rapporto di lavoro, oltre ad essere regolato da norme di legge e dal contratto individuale è, come abbiamo avuto modo di capire, regolato anche dai contratti collettivi, di natura e di livello diversi tra loro. Inoltre, come abbiamo precisato, i contratti collettivi hanno una propria scadenza, al verificarsi della quale si attua un rinnovo, il che può dar luogo a problemi di disciplina contrattuale,
inerenti l’applicazione di una disciplina piuttosto che di un’altra.


Successione di contratti collettivi nel tempo

Analizziamo il problema della successione dei contratti collettivi.
Esso non si pone nel caso in cui il contratto collettivo di rinnovo vada solo e solamente a
migliorare la disciplina del precedente. Diversamente può capitare che il nuovo contratto collettivo detti una disciplina più severa, restrittiva o sfavorevole per il lavoratore ed in tal caso si pone il problema di capire se il lavoratore abbia diritto all’applicazione dei diritti sanciti nel precedente contratto, oppure debba attenersi alla disciplina del nuovo contratto collettivo. Anzitutto precisiamo che per i contratti collettivi non trova applicazione la disciplina dell’art.2077 c.c., in quanto essa inerisce all’immodificabilità in pejus dei contratti individuali rispetto alle previsioni dei contratti collettivi, ma non c’entra nulla con i rapporti tra contratti collettivi. Una tesi assai diffusa è quella
dell’incorporazione delle clausole del contratto collettivo all’interno del contratto individuale: il nuovo contratto collettivo non può modificare in peggio i contratti individuali già posti in essere, ma solo quelli successivi alla propria stipulazione. In realtà la precedente disciplina prevale se e solo se ne siano fonte disposizione inderogabili di legge, perché se l’unica fonte è il contratto collettivo precedente, la nuova disciplina dovrà obbligatoriamente prevalere. Neanche la teoria dei diritti quesiti aiuta in tal senso: sono intangibili i diritti del lavoratore entrati nel patrimonio di quest’ultimo, questo è un dato certo. Non è altrettanto certo e vero che le semplici normative collettive più favorevoli siano da considerarsi durevoli nel tempo. Il libro, seppur in maniera
confusionaria, porta l’esempio delle maggiorazioni per il lavoro straordinario: il lavoratore ha diritto a percepire tali maggiorazioni per il lavoro già svolto, e questo è ovvio essendo un suo diritto quesito; non ha altrettanto diritto al mantenimento di tale maggiorazione anche nel contratto collettivo successivo, che ben potrà prevedere una riduzione.

L’efficacia nel tempo del contratto collettivo

Qualora un contratto collettivo sia scaduto e non si sia provveduto all’immediato rinnovo, vi è un periodo di vacanza contrattuale. Sebbene sia il Protocollo del 1993, sia l’Accordo quadro del 2009 abbiano previsto una copertura economica per far fronte a tale periodo, ciò non impedisce che ci
siano ritardi. Quindi nel periodo di vacanza contrattuale, il datore di lavoro potrebbe applicare una disciplina peggiorativa rispetto ai trattamenti minimi, senza ovviamente intaccare i diritti acquisiti (o quesiti) del lavoratore. Una parte della dottrina sostiene l’ultrattività del contratto collettivo, secondo cui quest’ultimo opererebbe sino alla stipulazione del nuovo contratto: tale ultrattività è prevista dall’art.2074 c.c., ma solo per i contratti corporativi e non per il contratto collettivo di diritto comune. Quindi tale ultrattività può operare solo qualora disposta all’interno degli specifici contratti collettivi, ma non in altri casi.Per ciò che concerne, poi, la retroattività delle clausole dei nuovi contratti collettivi, essa è possibile, tra l’altro anche qualora sia peggiorativa dei trattamenti minimi, senza però intaccare i diritti quesiti del lavoratore.

Il concorso-conflitto tra contratti collettivi di diverso livello

Un altro problema inerente i rapporti tra i contratti collettivi può essere determinato dal contrasto tra un contratto collettivo nazionale ed un contratto collettivo territoriale o aziendale, ossia dal contrasto che può nascere tra contratti collettivi di livelli diversi, per il mancato rispetto delle clausole di rinvio o per mancanza della ripartizione di competenze. Può capitare, infatti, che i diversi contratti vadano a disciplinare la medesima materia. In tal caso bisogna individuare quale
debba prevalere ed in che modo. Anzitutto tale contrasto non si crea quando è la stessa legge a prevedere che la disciplina di un istituto o di una materia debba essere dettata da un contratto nazionale di categoria: in tal caso il contratto decentrato risulterà invalido ed inefficace. Non vi è contrasto nemmeno nell’ipotesi in cui il contratto nazionale prevede delle clausole di uscita, ossia clausole che permettono, in determinati e specifici casi, al contratto aziendale/territoriale una deroga rispetto alla disciplina dello stesso contratto nazionale. Il contrasto, invece, esiste qualora non ricorrano i casi di cui sopra. La giurisprudenza degli anni 70 credeva che i conflitti andassero risolti tramite l’applicazione dell’art.2077c.c. contenente il principio dell’inderogabilità in pejus; in seguito, a partire dagli anni 80, la stessa giurisprudenza ha previsto che dovesse prevalere il contratto posteriore nel tempo, fosse esso di livello superiore o inferiore, migliorativo o peggiorativo, fatti salvi i diritti quesiti dal lavoratore. Per risolvere il problema del conflitto di “regolazione” (è questo il nome dei conflitti tra contratti di diverso livello) venne elaborata anche una teoria dottrinale: avrebbe dovuto prevalere il contratto più speciale, ossia quello più vicino alla situazione da regolare. Ciò sarebbe stato possibile, però, solo nel caso di contratto decentrato stipulato dalle medesime organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale, perché solo in tal caso il contratto decentrato avrebbe assunto il carattere di specialità. A partire dal Protocollo del 1993, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che la generalizzazione delle clausole di rinvio e la previsione di una clausola di non ripetibilità, renda invalido il contratto decentrato
contenente disposizioni in contrasto con quello nazionale di categoria. In realtà una parte consistente della dottrina non riconosce una tale efficacia reale alle clausole di rinvio, il che comporterebbe la piena validità del contratto decentrato. Inoltre va tenuto conto della mancata partecipazione della Cgil all’Accordo quadro del 2009, il che comporta che la suddetta confederazione rimane ancora alle previsioni del Protocollo del 1993: non trattandosi, quindi, di una disciplina unitariamente condivisa, quella del 2009 non può considerarsi come definitivo criterio di giudizio del conflitto-concorso tra contratti collettivi di diverso livello.

SEZIONE C: LA CONTRATTAZIONE E LA LEGGE

L’inderogabilità unilaterale della legge

La regolamentazione del rapporto di lavoro, oltre a dipendere dai contratti individuali e collettivi, i cui rapporti sono già stati descritti, dipende anche, e soprattutto, dalle norme di legge. Esse si rapportano alla contrattazione collettiva ponendosi in una linea gerarchicamente superiore, cosicché, in linea generale, i contratti collettivi non potranno mai prevedere una disciplina più
sfavorevole per il lavoratore rispetto a quella fissata dalla legge. In sostanza, nell’ottica del favor per il lavoratore e dell’inderogabilità in pejus, la clausola contrattuale peggiorativa delle condizioni poste dalla legge, risulta nulla. Talune volte, però, il legislatore ha fatto in modo che ci fosse una deroga a tale principio, prevedendo o che il contratto collettivo potesse integrare, sostituire o derogare in pejus quanto stabilito dalla stessa legge, o fissando dei “tetti” oltre i quali non poter disporre trattamenti migliorativi (inderogabilità in melius).

Rinvii legali alla contrattazione collettiva

Qualora il legislatore assicuri alla contrattazione collettiva la possibilità di integrare, sostituire o derogare in pejus quanto dalla legge stabilito, si parla di “garantismo collettivo”, attuato: O garantendo alla contrattazione collettiva la possibilità di derogare ad una norma di legge;O permettendo ad una norma suppletiva di legge di operare solo in caso di mancanza dell’accordo collettivo;O permettendo alla contrattazione collettiva di “integrare” (e non derogare) le norme legali;O permettendo alla contrattazione collettiva di derogare o integrare una norma legale, ma prevedendo, in mancanza di un accordo collettivo, che l’integrazione venga disposta dal Ministro del lavoro (il che in taluni casi può anche disincentivare il ricorso alla contrattazione collettiva);O permettendo alla contrattazione collettiva la regolamentazione di una materia, prevedendo che in assenza di tale contrattazione intervenga un’autorità amministrativa indipendente (la quale, in
realtà, interviene anche per vigilare sulla conformità dell’operato dei contratti collettivi rispetto alle previsioni legislative).
I limiti legali alla contrattazione collettiva

Abbiamo già accennato che il legislatore ha il potere di limitare la derogabilità in melius della
contrattazione collettiva. Una prima ipotesi di tal genere si ebbe con il D.L.12/1977: a quel tempo era in vigore il c.d. sistema delle scale mobili, che prevedevano l’indicizzazione dei salari al costo della vita; il legislatore, con il decreto sopra citato, impedì ai contratti collettivi di utilizzare le c.d. “scale mobili anomale”, ossia sistemi di indicizzazione diversi da quelli previsti per legge, recependo tra l’altro la volontà dei sindacati. Sul tema vennero subito richieste delle pronunce della Corte costituzionale, in quanto una limitazione del potere della contrattazione collettiva veniva configurato, da molti, come una limitazione alla libertà sindacale di cui all’art.39 Cost, sebbene il
legislatore avesse tramutato in legge proprio la volontà dei sindacati. La Corte respinse l’illegittimità costituzionale, ma senza chiarire il dubbio: giudicò, infatti, data la mancata attuazione dell’art.39, di non potersi pronunciare a riguardo. Tuttavia, col tempo, è emerso che non esista una riserva normativa in favore della contrattazione collettiva che limiti, di fatto, il potere del legislatore di intervenire su materie regolate dai contratti collettivi, sebbene essi siano espressione del principio di libertà sindacale espresso dall’art.39 Cost. L’autore, e chiunque abbia ben inteso la situazione, ha ben capito che la Corte sarà chiamata nuovamente a pronunciarsi su questioni simili, dato che il dubbio non è stato risolto del tutto. Molto spesso la legge, nell’ultimo decennio, ha previsto che alla contrattazione collettiva sia negata la disciplina di alcune materie: sul punto molti autori concordano sull’illegittimità costituzionale di una tale previsione, in quanto limitativa della libertà contrattuale.

CAPITOLO NONO – LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL LAVORO PUBBLICO

Diritto pubblico e rapporto di pubblico impiego

La privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, all’interno del nostro ordinamento, si è avuta solo a partire dagli anni 90 del secolo scorso. Fino ad allora era prevalsa l’idea che i lavoratori pubblici, essendo alle dipendenze delle pubblica amministrazione chiamata a garantire interessi di tutti i cittadini, dovessero essere sottoposti a norme di diritto pubblico ed alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo. Il rapporto di lavoro pubblico non veniva visto in termini contrattuali, bensì in termini di supremazia ed autorità dell’amministrazione sui propri dipendenti.
Eppure già un’autorevole dottrina amministrativistica degli anni 70 aveva attuato una netta distinzione tra il rapporto organico ed il rapporto di servizio, individuando il primo come il rapporto di preposizione all’ufficio del lavoratore, il quale deve essere regolato obbligatoriamente secondo norme di diritto pubblico, in quanto tali norme sono poste a tutela dell’interesse pubblico per cui l’ufficio è stato creato, ed il secondo come il rapporto di scambio tra attività lavorativa e retribuzione. Bisognava, semplicemente, attuare una distinzione tra l’attività dell’amministrazione pubblica ed i singoli atti dei dipendenti, i quali non potevano essere assoggettati a norme pubblicistiche: eppure anche il Consiglio di Stato, nel parere fornito nel 1992 sul primo progetto di riforma, evocò l’art.97 Cost. contenente norme in materia di pubblici uffici, non comprendendo la
distinzione poc’anzi descritta.

Accordi sindacali e disciplina del rapporto attraverso il loro recepimento in atti regolamentari

Il rapporto di lavoro pubblico, quindi, non aveva natura contrattuale e la P.A. datrice di lavoro aveva un ruolo di supremazia tale da non ammettere che il rapporto fosse disciplinato da una fonte contrattuale e privatistica, il contratto collettivo. Tuttavia, sulla spinta dei dipendenti pubblici e delle associazioni rappresentative degli stessi, nel 1968 il legislatore riconobbe il ruolo degli “accordi sindacali” (praticamente la contrattazione collettiva), ma non come autonome fonti di
disciplina del rapporto di lavoro, ma come momento di un procedimento amministrativo che avrebbe portato la P.A. all’emanazione di un atto regolamentare, che avrebbe a sua volta disciplinato il rapporto di lavoro. La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 confermò questo schema, in cui l’accordo sindacale rappresentava semplicemente un punto di partenza da tenere in considerazione. Negli anni 90, però, questo sistema mostrò tutte le proprie lacune, determinando una riflessione sulla natura contrattuale del rapporto di lavoro pubblico, al pari di quello privato. Va sottolineato come il modello della L.93/1983 è stato, di recente, adottato per alcuni casi specifici: personale diplomatico, forze di polizia e forze armate, corpo dei vigile del fuoco. Il particolare vincolo gerarchico di queste amministrazioni spiega la ratio di tale adozione.

La contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego

La concezione pubblicistica del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazione venne sovvertita, inizialmente dalla legge delega 421/1992, la quale conferì al Governo il potere di ricondurre i rapporti di impiego con le P.A. sotto la disciplina del diritto civile e di regolarli mediante contratti individuali e collettivi. Tutti gli atti legislativi successivi in materia sono stati incorporati dal T.U. previsto dal D.Lgs.165/2001, modificato a sua volta anche di recente, in seguito all’Accordo quadro del 22 gennaio 2009 e della conseguente Intesa del 30 aprile. All’interno del D.Lgs. 29/1993, attuativo della legge delega 421/1992, fu prevista la distinzione tra organizzazione
pubblicistica degli uffici, che rimase sotto la disciplina del diritto pubblico, e organizzazione privatistica del lavoro, assoggettato per la prima volta alle norme del lavoro subordinato nell’impresa, incontrando i soli limiti posti dallo stesso decreto. Una disciplina successiva, tra l’altro, previde che solo gli atti di macro-organizzazione dovessero essere disciplinati dal diritto pubblico, ossia gli atti inerenti l’organizzazione degli uffici, i modi di conferimento degli uffici di maggior rilevanza e le dotazioni organiche complessive, mentre il resto degli atti, quelli di micro-organizzazione, sarebbero stati ricondotti sotto la disciplina del diritto civile, senza atti amministrativi, ma ponendo in essere atti negoziali di natura privatistica. In conclusione possiamo dire che oggi il rapporto di pubblico impiego è un rapporto fondato su un contratto di diritto
privato, che conserva caratteri pubblicistici solo in caso di deroghe legali. La Corte costituzionale, in più occasioni, ha specificato la legittimità di tale riforma e la conformità all’art.97 della nostra Costituzione. Recentemente ha, poi, chiarito che anche i rapporti di lavoro con enti locali, quali le Regioni, rientrano nella competenza legislativa dello Stato, in quanto soggetti al diritto privato del lavoro.

Contrattazione collettiva e lavoro pubblico

Dopo la privatizzazione del pubblico impiego, gli accordi sindacali, di cui avevamo già parlato, si sono trasformati in veri e propri contratti collettivi, potendo disciplinare direttamente la materia del rapporto di lavoro pubblico, senza un provvedimento da parte della P.A., la quale potrà intervenire, nello stesso limite previsto per il datore di lavoro privato, solo nel momento in cui non sia stato raggiunto un accordo e senza poter corrispondere trattamenti economici superiori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi. La contrattazione collettiva è stata, però, ridimensionata da un recente intervento del legislatore: il D.Lgs.150/2009, noto come riforma Brunetta ed attuativo
della L.15/2009 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza nelle pubbliche amministrazioni, ha disciplinato direttamente alcuni aspetti del rapporto di lavoro pubblico, che appartenevano alla competenza della contrattazione collettiva. Il processo di delegificazione iniziato con la L.421/1992 si è, quindi, interrotto per dar luogo ad una rilegificazione. E’ stato previsto, inoltre, che i contratti collettivi possano regolare diversamente la materia del rapporto di lavoro pubblico solo su espressa autorizzazione della legge. Dettagliatamente sono stati, poi, regolati i meccanismi di valutazione dei dipendenti, di incentivazione della produttività e della qualità delle prestazioni lavorative ai fini della progressione in carriera, nonché la responsabilità disciplinare del dipendente.

La struttura del sistema contrattuale

Abbiamo già avuto modo di specificare come la contrattazione collettiva nel settore pubblico non
tragga la propria legittimazione dal riconoscimento dell'autonomia privata dell’art.1322 c.c., bensì dalla disciplina contenuta nel D.Lgs.165/2001. Perno principale del sistema contrattuale è il “contratto nazionale di comparto”, paragonabile nel settore privato al contratto nazionale di categoria: i comparti, infatti, sono settori omogenei o affini di amministrazioni pubbliche individuati da appositi accordi tra le confederazioni sindacali rappresentative e l’Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni); la legge stabilisce, soltanto, che i comparti non possano essere più di 4, così come 4 sono le aree contrattuali autonome previste per i dirigenti. Qualora sia necessaria, tra l’altro, una disciplina uniforme per tutti i comparti, potranno essere stipulati, anche nel settore pubblico, Accordi quadro. Le P.A.. possono attivare anche autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa, ossia una forma di contrattazione decentrata, sebbene essa debba attenersi alle regole di competenza fissate dalla contrattazione nazionale, altrimenti i contratti integrativi saranno nulli. Essi hanno il compito di dettare e prevedere una disciplina della retribuzione incentivante: il D.Lgs.150/2009 ha, però, previsto tale disciplina, sottraendo, quindi, gran parte dei compiti, alla contrattazione integrativa.

I soggetti della contrattazione: rappresentanza dei lavoratori

Nell’ambito del settore pubblico, possono sedersi al tavolo delle trattative per la conclusione dei contratti collettivi solo i sindacati maggiormente rappresentativi, ossia quelli che realizzano un indice di rappresentatività non inferiore al 5%, calcolato come media tra il dato associativo e quello elettorale. Per la conclusione del contratto collettivo, inoltre, occorre che a sottoscriverlo siano tanti sindacati che realizzino un indice di rappresentatività pari almeno al 51%, come media tra dato associativo e dato elettorale, ovvero al 60% se si assume solo il dato elettorale. Legittimati alla
contrattazione integrativa, invece, sono la RSU, insieme alle rappresentanze dei sindacati firmatari del contratto nazionale qualora quest’ultimo abbia così disposto: è sempre, quindi, il contratto nazionale di categoria a stabilire i poteri della RSU e dei sindacati firmatari del contratto nazionale, proprio come avviene nel settore privato.

I soggetti della contrattazione: la rappresentanza delle amministrazioni

Chiarito a chi spetta la rappresentanza dei lavoratori nell’ambito di accordi contrattuali sia nazionali che decentrati, dobbiamo sottolineare cha la rappresentanza delle amministrazioni pubbliche spetta, a partire dal 1992 e dalla riforma dello stesso anno, all’Aran, agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni. In precedenza, invece, spettava a particolari delegazioni formate da rappresentanti politici di governo, molto spesso incompetenti e sottoposti a pressioni di tipo elettoralistico. L’Agenzia, invece, rappresenta tutte le pubbliche amministrazioni nella conclusione di contratti nazionali ed assiste le singole amministrazione nella conclusione di contratti integrativi (solo le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano hanno diritto a costituire proprie agenzie). L’Aran, però, nella sua azione non è libera del tutto, in quanto vincolata ad “atti di indirizzo” dei comitati di settore: il primo comitato è costituito
nell’ambito della Conferenza delle Regioni, per ciò che concerne le stesse Regioni, gli enti regionali ed il Servizio Sanitario nazionale; il secondo comitato, invece, è costituito nell’ambito dell’Anci (associazione nazionale comuni italiani), dell’Upi (unione province italiane) e dell’Unioncamere, per ciò che riguarda gli Enti locali, le Camere di commercio ed i segretari comunali/provinciali; il terzo comitato è rappresentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia, che rappresenta tutte le altre amministrazioni pubbliche. Inoltre l’Aran, per sottoscrivere definitivamente un contratto collettivo, deve ottenere il parere favorevole del comitato di settore interessato sull’ipotesi di accordo, ossia sull’accordo già predisposto a cui manca soltanto la firma.

Il procedimento contrattuale

Per ciò che concerne la contrattazione nazionale, vi è una fase preliminare alla vera e propria contrattazione, che consta di 3 momenti: la legge finanziaria stabilisce gli oneri di spesa per lo Stato, mentre quelli a carico delle altre amministrazioni vengono fissati dai propri bilanci; il comitato di settore o il Presidente del Consiglio impartiscono gli indirizzi all’Agenzia;Si individuano i sindacati abilitati alla trattativa.Spetta, poi, all’Aran portare avanti la trattativa con i sindacati e trovare un accordo, su cui dovrà esprimere parere favorevole il comitato di settore interessato (trattasi di parere favorevole e non di autorizzazione, in quanto l’Aran ed il comitato
curano il medesimo interesse). Per sottoscrivere il contratto collettivo, tra l’altro, l’Aran non necessita SOLO del parere favorevole di cui sopra, ma anche della “certificazione di compatibilità dell’accordo con il bilancio”, emessa dalla Corte dei conti, che in poche parole va a verificare la copertura finanziaria del contratto. In caso di esito negativo, l’Aran deve riaprire il tavolo delle trattative con i sindacati per ridurre i costi; in caso di esito positivo, invece, può sottoscrivere il contratto. Per ciò che concerne, invece, i contratti integrativi, la disciplina è rimessa interamente alla contrattazione nazionale ed il controllo sui costi viene svolto dal collegio dei revisori dei conti o dai servizi interni.

L’efficacia soggettiva del contratto collettivo

Il contratto collettivo pubblico è, anch’esso, un atto di autonomia privata e pertanto si pone, anche in questo caso, il problema della sua efficacia soggettiva (ossia: verso chi produce i propri effetti?). L’Aran, come abbiamo detto, rappresenta tutte le pubbliche amministrazioni e pertanto è facilmente
intuibile che il contratto collettivo, da essa stipulato, produca direttamente i propri effetti nei confronti delle amministrazioni, che tra l’altro non possono corrispondere trattamenti economici inferiori rispetto a quelli dedotti nel contratto collettivo. Dal punto di vista dei lavoratori, invece, bisogna precisare che egli ha accettato un contratto individuale, il quale necessariamente opera un rinvio alla contrattazione collettiva: pertanto il contratto collettivo riprodurrà i propri effetti anche su quello individuale, e quindi sul lavoratore.

Ulteriori garanzie di controllo della spesa

Sappiamo, grazie a quanto detto sinora e grazie al fatto che non siamo delle teste di cazzo, che risulta di fondamentale importanza la copertura economica di un contratto collettivo. Per tale motivo è previsto che in contratti integrativi che non rispettino i limiti di bilancio, siano nulli. Un’altra norma prevede che lo stesso contratto collettivo debba contenere una previsione che
permetta di prorogarne l’efficacia o di sospenderne gli effetti, in caso di travalicamento dei limiti di spesa. Infine, qualora sorgano controversie circa l’interpretazione di un contratto collettivo, le parti possono definire esse stesse il significato della clausola controversia e tale interpretazione retroagirà al momento della stipulazione del contratto. Si tratta di un’interpretazione autentica (ricordiamo che si definisce autentica l'interpretazione delle legge effettuata dal medesimo organo che ha posto in essere l'atto normativo). Qualora a decidere sull’interpretazione del contratto collettivo sia chiamato
un giudice, egli dovrà sospendere il giudizio e permettere alle parti di fornire l’interpretazione di cui sopra.

CAPITOLO DECIMO – SINDACATI E SISTEMA POLITICO

SEZIONE A: LA CONCERTAZIONE

L’azione politica del sindacato ed il ruolo dei pubblici poteri nelle relazioni industriali

Il sindacato nasce come forma organizzativa di più soggetti per garantire le condizioni minime economiche e normative ai lavoratori, in modo da ottenere una vasta tutela soprattutto sotto il profilo della retribuzione. Col tempo, però, il concetto di sindacato, ed i poteri ad esso connessi, sono accresciuti, affiancando all’azione economica quella politica. Possiamo distinguere due modelli sindacali: il sindacalismo economico/negoziale (business unionism), tipicamente statunitense, che privilegia gli obiettivi di carattere economico, senza avere rapporti di alcun tipo con il potere politico, e che sfrutta come unico strumento la contrattazione collettiva; ed il sindacalismo competitivo (competitive unionism), tipicamente britannico ed italiano, che pone in essere un’azione tanto economica quanto politica, intrattenendo relazioni con i partiti politici e con i vari governi, e che auspica riforme di carattere economico-sociale. A partire dalla crisi petrolifera degli anni 70, come abbiamo già detto, si ebbe una crisi dell’intero mercato del lavoro, soprattutto sotto il punto di vista occupazionale. Lo Stato, pertanto, necessitava dell’appoggio delle associazioni sindacali per portare avanti una politica socio-economica volta a risanare la situazione di crisi: per tal motivo, pian piano, esso assunse la veste di “terza parte negoziale”, assumendo in tal
modo impegni politici all’interno della contrattazione, un tempo svolta solo tra le parti sociali (nacquero i c.d. accordi triangolari).

La concertazione delle politiche economico-sociali

Con l’espressione “concertazione sociale” s’intende il nuovo metodo di contrattazione triangolare delle scelte di politica economico-sociale. Esistono due concetti di concertazione, riferibili nel caso italiano, a due periodi diversi. Il primo concetto vede la concertazione come uno “scambio politico” fra lo Stato, da un lato, e le parti sociali, dall’altro: le parti sociali acconsentono a sacrifici immediati (contenimento delle retribuzioni, mancato miglioramento delle condizioni lavorative ecc.) per garantire il raggiungimento di determinati obiettivi, mentre lo Stato “cerca di garantire”
compensazioni future, di carattere fiscale o ai fini dell’occupazione: il verbo “cerca”, in tal caso, manifesta l’assenza, talune volte, di tali compensazioni, magari per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, nonostante la collaborazione delle parti sociali. Questo concetto di concertazione comporta un alto grado d’instabilità, in quanto i lavoratori potrebbero far venire meno il proprio appoggio ai sindacati, non riscontrando alcun beneficio in tali accordi triangolari.Il secondo concetto vede la concertazione come un vero e proprio metodo decisionale degli obiettivi economico-sociali comuni, cui partecipano tanto lo Stato, quanto le parti sociali, cui viene, pertanto, attribuita una quota di autorità e di responsabilità. Tale concetto, quindi, prevede un sistema di compartecipazione alla vita del Paese, il che lo rende più stabile: lo Stato, in tal caso e differentemente dal concetto precedente, non deve disporre di risorse economiche da scambiare, il che rende tale concertazione più stabile. Il primo tipo di concertazione si è avuto in Italia negli anni 80, mente nel decennio successivo si è concretizzato il secondo tipo. Talune volte lo Stato italiano è giunto, addirittura, alla consultazione delle parti sociali prima dell’approvazione di un provvedimento, e si è parlato in tal caso di leggi negoziate, o ad autorizzare il contratto collettivo alla deroga o all’integrazione della disciplina legislativa, e si è avuta la c.d. contrattazione delegata. All’interno della XIV legislatura (2001-2006), si è assistito alla creazione di un nuovo modello di dialogo sociale, più che altro di matrice comunitaria: gli obiettivi di politica economico-sociale
non sono più pattuiti consensualmente dalla Stato con le parti sociali, bensì sono fissati dallo Stato stesso, che si impegna solo alla consultazione ed all’informazione delle parti sociali (presentazione del Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001 e conseguente consultazione).

L’evoluzione storica della concertazione: gli anni 70 e 80

La prassi della concertazione, come abbiamo detto, iniziò negli anni 70, in seguito alla notevole crisi che comportò l’aumento dell’inflazione e del deficit della spesa pubblica. Già all’interno
dell’accordo interconfederale del 26 gennaio 1977, lo Stato, pur rimanendo formalmente estraneo, si impegnò a porre in essere provvedimenti legislativi in materia di occupazione, ricevendo in cambio una moderazione delle rivendicazioni salariali. Negli anni 80, invece, la situazione si complicò notevolmente, in quanto le parti sociali (sindacati ed imprenditori) non riuscivano a modificare il sistema di indicizzazione dei salari al costo della vita, ossia il c.d. sistema della scala mobile. Lo Stato, questa volta, intervenne attivamente, impegnandosi ad emanare provvedimenti legislativi in materia di assegni familiari e di fiscalizzazione degli oneri previdenziali a carico delle imprese, e ricevendo in cambio una modificazione del sistema della c.d. scala mobile. Si ebbe, così,
il primo “accordo triangolare” il 22 gennaio 1983, chiamato Protocollo Scotti dal nome del Ministro del Lavoro dell’epoca. L’anno successivo, nel 1984, un decreto del Governo Craxi, in seguito convertito in legge, conseguente ad un accordo con Cisl e Uil, tagliò 4 punti percentuale della scala mobile, provocando l’insurrezione della Cgil e del Pci guidato da Berlinguer, il quale promosse un referendum abrogativo, che però ebbe esito negativo. Per un periodo di tempo, vennero interrotte le prassi concertative, a causa dell’accordo che aveva escluso la Cgil.

Il Protocollo del 23 luglio 1993 e la politica dei redditi

All’inizio degli anni 90 il metodo concertativo venne recuperato, soprattutto a causa della previsione, in ambito UE, di un contenimento della crisi economica ed occupazionale tramite la fissazione di parametri che i Paesi europei avrebbero dovuto rispettare per partecipare all’unione monetaria.In Italia vennero firmati due accordi triangolari di notevole importanza: il Protocollo Amato del 31 luglio 1992, che abolì definitivamente il sistema della scala mobile, ed il Protocollo Ciampi/Giugni del 23 luglio 1993, con il quale, per la prima volta, Stato e parti sociali fissarono degli obiettivi comuni di politica dei redditi, legata cioè all’accrescimento dei salari sulla base
dell’aumento della produzione e degli utili d’impresa. Secondo tale politica sarebbero stati fissati dei limiti all’inflazione, tramite la previsione di un “tasso d’inflazione programmato” entro il quale contenere la stessa, per conseguire una crescita occupazionale ed uno sviluppo economico tramite l’allargamento della base produttiva ed una maggiore competitività delle imprese. Il confronto con le parti sociali sarebbe stato preventivo rispetto ai processi decisionali, anche se il Governo avrebbe dovuto tenere conto dell’esito del confronto. Il Protocollo del 93, quindi, non si basava sullo scambio politico tra vincoli (previsti per le parti sociali) e benefici (erogati dallo Stato), ma
coinvolgeva le parti sociali nelle decisioni di politica economica, sulla base di obiettivi condivisi.

Il Patto del ’98: istituzionalizzazione e decentramento della concertazione

In seguito al Protocollo del 93, la concertazione si rafforzò sempre più, sino ad arrivare al Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 (Patto di Natale), all’interno del quale il metodo della concertazione venne rafforzato, assicurando autonomia e responsabilità tanto allo Stato quanto alle parti sociali.Venne previsto che anche le Regioni e gli Enti locali partecipassero alle procedure di concertazione, in merito, soprattutto, all’esercizio dei compiti e delle funzioni devolute dallo Stato ai poteri locali, tramite sia una partecipazione alla concertazione nazionale dei vari livelli di governo locale, sia una concertazione territoriale vera e propria. Inoltre venne introdotta una duplice procedura concertativa: per le materie di politica sociale che comportassero un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, era prevista una consultazione delle parti sociali ma la decisione finale spettava al Governo ed al Parlamento sovrano; per le materie di competenza delle parti sociali, che non comportassero un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, la concertazione diveniva più articolata, sulla base anche dell’Accordo sulla Politica Sociale di Maastricht: Governo e parti sociali avrebbero dovuto confrontarsi sugli obiettivi da raggiungere e ciò avrebbe comportato un’iniziativa legislativa del Governo o, addirittura, un negozio bilaterale in merito all’intervento da realizzare, tramite anche un procedimento in via negoziale e non legislativa. Praticamente il Patto del 98 confermava la concertazione come un metodo di condivisione degli obiettivi di politica economico-sociale, che assicurava alle parti autonomia e responsabilità e si fondava sul rispetto delle prerogative e dei diritti costituzionalmente
garantiti, attribuendo una propria indipendenza e responsabilità alle parti sociali stesse in caso di attuazione delle politiche concertate nelle materie di propria competenza.

Il c.d. dialogo sociale ed il Patto per l’Italia del 2002

Nel 2001 è stato introdotto il metodo del dialogo sociale, in sostituzione di quello concertativo, il quale prevede che, nelle materie che non comportano un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, ossia nelle materie di competenza delle parti sociali, quest’ultimo ascolti preventivamente i sindacati e le organizzazioni rappresentative degli imprenditori, per poi addivenire ad un negoziato che si trasformi in un intervento legislativo del Governo o delle Regioni. Qualora l’accordo non si raggiunga, il Governo (o la Regione) provvederà autonomamente a disciplinare la materia. Il nuovo metodo, tra l’altro, auspica un ritorno dell’accordo tra le sole parti
sociali, separando la contrattazione collettiva dal potere legislativo, e facendo in modo di riconoscere a quest’ultimo un ruolo sostitutivo della contrattazione. Inoltre il Libro Bianco, di cui abbiamo già parlato, prevede una sostituzione della regola dell’unanimità per la conclusione di accordi triangolari, sostituendola con quella maggioritaria, ma non inerente la rappresentatività delle organizzazione sindacali, bensì il numero delle 3 confederazioni (non importa, quindi, se una confederazione rappresenta il 51% dei lavoratori e le altre 2 il restante 49%...importa soltanto che almeno 2 su 3 confederazioni siano d’accordo), il che si è concretizzato all’interno del Patto per l’Italia – Contratto per il lavoro del 5 luglio 2002, al quale hanno preso parte il Governo, la Cisl e la Uil, ma non la Cgil, considerata portatrice di degli interessi dei partiti politici di opposizione. In
seguito al Patto suddetto, il Governo avviò la consultazione dei sindacati sugli interventi legislativi di maggior rilievo, quali lo schema di decreto attuativo della legge delega 30/2003, il progetto di riforma delle pensioni, l’attuazione del D.Lgs.276/2003, in merito ai quali le parti sociali non ebbero alcun peso, tanto da svuotare di significato lo stesso Patto e provocare l’insurrezione degli stessi sindacati, Cisl e Uil, che avevano preso parte ad esso.

Il Protocollo del 23 luglio 2007

Il Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili, del 23 luglio 2007, è stato il frutto del ritorno al modello concertativo e dell’abbandono del modello di dialogo sociale. A porre in essere tale ritorno è stato il Governo Prodi, la cui legislatura è stata breve per contrasti all’interno della compagine governativa, ma intensa per ciò che concerne la concertazione. Il Protocollo, infatti, ha messo d’accordo tutte le parti sociali ed ha toccato i temi più importanti, i temi caldi inerenti il mercato del lavoro: il sostegno alla competitività delle imprese, l’attenuazione del cuneo fiscale (per chi non lo sapesse il cuneo fiscale o contributivo è la differenza tra quanto il datore di lavoro paga a titolo di retribuzione al lavoratore e quanto il prestatore realmente percepisce, per le ingenti trattenute da parte dello Stato), l’incentivazione della contrattazione di secondo livello (quella decentrata ed integrativa), il sistema previdenziale e gli ammortizzatori sociali, tutti temi di fondamentale importanza per il Paese. L’intesa in merito a questi argomenti,
dopo una lunga trattativa, è stata raggiunta e la legge che recepiva l’accordo è stata approvata, ma nel mese di gennaio 2008 il Governo è entrato in crisi e la legislatura è terminata.

Natura giuridica dei protocolli triangolari e problemi di legittimità Costituzionale

La Corte costituzionale, specie negli anni 80, ha avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità delle concertazioni, specificando che esse non risultano lesive delle norme costituzionali, in quanto esse perseguono finalità di carattere pubblico e non prevedono vincoli giuridici per il potere sovrano che si manifesta tramite la volontà, pur sempre, del Parlamento. Fino a che le concertazioni tenderanno a contemperare i vari interessi in gioco e non limiteranno il perseguimento degli interessi pubblici, non entreranno in alcun modo in contrasto con la nostra Costituzione. Inoltre la concertazione, al pari della contrattazione collettiva, e quindi gli accordi triangolari al pari dei contratti collettivi, sono manifestazioni dell’autonomia sindacale collettiva, apparendo come due species di uno stesso geenus (l’autonomia collettiva sindacale).

SEZIONE B: IL DIALOGO SOCIALE NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE
EUROPEA

Unione europea e attività negoziale delle organizzazioni sindacali

Abbiamo visto come, in Italia ed in altri Paesi europei, sia cresciuta, col tempo, l’esigenza dei
poteri pubblici di ottenere l’appoggio delle parti sociali per la propria azione politica di carattere economico-sociale. Tale esigenza è stata avvertita anche a livello europeo e ciò ha indotto il legislatore comunitario a riconoscere alle organizzazioni sindacali ed a quelle degli imprenditori un ruolo importante nella formazione delle politiche europee in materia sociale. Tuttavia, mentre nei vari Paesi europei, è stata la forza delle organizzazioni sindacali ad ottenere riconoscimenti nell’ambito della contrattazione collettiva, prima, e della procedura di concertazione, poi, in ambito comunitario è avvenuto un processo inverso: è stato lo stesso legislatore comunitario a chiedere la
partecipazione delle organizzazioni rappresentative alla politica sociale dell’Unione. Ciò non ha incontrato pochi ostacoli: le stesse organizzazioni sindacali dei vari Stati membri hanno tentennato per lungo tempo nell’attribuire dei propri poteri ad organizzazioni, dello stesso genere, sovrannazionali. Inoltre per lungo tempo è mancato un riconoscimento giuridico dei diritti sociali fondamentali, che invece si è avuto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 e, più concretamente, con il Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 31 dicembre 2009. Il dialogo sociale europeo, superando gli ostacoli di cui sopra, si è comunque sviluppato dall’alto verso il basso, a differenza del dialogo sociale interno a singoli Stati. Tuttavia, dobbiamo comunque ricordarci che l’art.153 TFUE nega la competenza dell’Unione in materia sindacale,
come abbiamo avuto modo di dire nel secondo capitolo.

Il dialogo sociale e gli accordi sindacali europei: procedure ed attuazione secondo il diritto dell’Unione europea

Al dialogo tra le parti sociali, e tra queste e le Istituzioni, sono dedicati gli artt.151-155 TFUE in materia di politica sociale.L’art.151 TFUE sottolinea come il dialogo sociale, al pari della promozione dell’occupazione, del miglioramento del tenore di vita, dell’aumento dell’occupazione e dello sviluppo delle risorse umane, sia uno degli obiettivi principali di politica sociale dell’Unione.L’art.152 TFUE riconosce, poi, valore istituzionale al Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione, organo formato dai rappresentanti dei lavoratori, degli imprenditori e del Consiglio, assicurandogli un ruolo di partecipazione attiva alle azioni comunitarie. L’art.153 TFUE indica, invece, le materie di competenza concorrente con gli Stati membri dell’Unione, escludendone alcune di ampia rilevanza, quali il diritto allo sciopero, la serrata, il diritto di associazione e le retribuzioni. Solo nelle materie indicate da questo articolo sarà ammesso un intervento dell’Unione. L’art.154 TFUE attribuisce alla Commissione il compito di consultare le parti sociali a livello europeo, sia prima che durante la formulazione di una proposta legislativa da presentare in seguito al Consiglio (ricordiamo che la Commissione è l’istituzione con potere d’iniziativa legislativa); sulla proposta le parti sociali esprimeranno una raccomandazione, sebbene non vincolante. L’art.155 TFUE prevede, poi, la facoltà delle parti sociali, sulla materia oggetto di proposta, di comunicare alla Commissione che esse stesse intendono regolare la materia tramite la contrattazione collettiva, il che congela l’azione della Commissione per un periodo di nove mesi. Gli accordi raggiunti in fase di consultazione o quelli posti in essere, autonomamente, dalle parti sociali, possono essere attuati tramite due procedure diverse: una prima procedura, definita come debole e che da luogo ad accordi liberi, prevede che all’attuazione della disciplina provvedano gli Stati membri, il che ci fa ben capire che la stessa non risulterà semplice, dato che dovranno provvedervi 27 Paesi diversi; la seconda procedura, definita come forte e i cui accordi sono definiti vincolati, prevede un’azione dell’Unione, tramite una proposta della Commissione e l’approvazione da parte del Consiglio (trattasi di procedura abbreviata, in cui il Parlamento non ha alcun ruolo), che provvede all’emanazione di una decisione, che nella prassi viene considerata una direttiva.

L’attuazione delle direttive attraverso la contrattazione collettiva

L’art.153.3 TFUE prevede che gli Stati membri abbiano la facoltà (non l’obbligo) di affidare alle parti sociali, e pertanto alla contrattazione collettiva, su loro richiesta, l’attuazione di direttive
comunitarie emanate con procedura legislativa (ex procedura di coodecisione) o con procedura speciale per gli accordi collettivi vincolati. Laddove il contratto collettivo abbia efficacia erga omnes tale strumento può essere adoperato senza problemi, mentre nel nostro ordinamento, dove tale efficacia, in forza della mancata attuazione dell’art.39 Cost., non è riconosciuta ai contratti collettivi, l’adozione di tale strumento è di difficile attuazione. Il Patto sociale del 1998 ha previsto, pertanto, che in tali casi si avvii una concertazione tra Stato e parti sociali, all’interno della quale le stesse parti devono emanare “l’avviso comune”, ossia un parere in merito all’attuazione della direttiva. Ricordiamo che lo Stato membro non è obbligato a seguire tale procedura e potrebbe dare
attuazione diretta alla direttiva comunitaria. Gli sviluppi più recenti del dialogo sociale: nuove tecniche regolative e contrattazione collettiva europeaAbbiamo visto come i vari articoli del TFUE promuovano lo strumento del dialogo sociale all’interno della politica sociale dell’Unione. Il modello sociale europeo include tanto un “dialogo sociale settoriale”, che ha visto la trasformazione dei vecchi comitati paritetici in Comitati di dialogo settoriale, i quali hanno funzione consultiva su tutti i processi europei con effetti sociali, quanto l’intervento del Fondo sociale europeo in materia di rafforzamento della coesione economica e sociale dell’Unione. Inoltre è stato previsto tutto un apparato di riconoscimento delle relazioni industriali transnazionali, realizzate tramite la
contrattazione transnazionale collettiva, la quale esula dall’operato delle istituzioni.

CAPITOLO UNDICESIMO – L’AUTOTUTELA ED IL DIRITTO DI SCIOPERO

L’autotutela degli interessi collettivi

L’autotutela degli interessi collettivi è la manifestazione di gran lunga più importante dell’operato sindacale. Essa può manifestarsi tramite lo sciopero dei lavoratori, che è la forma più importante e tipica, ma vi sono tutta una serie di altre forme che analizzeremo nell’ultimo capitolo, sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro. Grazie all’autotutela una parte del conflitto sindacale riesce a far
pressione sull’altra e manifesta, in tal modo, il proprio potere all’interno delle trattative
(pensate allo sciopero dei lavoratori ILVA nei confronti del proprio datore di lavoro per
rivendicare alcuni diritti: se a tale sciopero partecipa il 70%/75% dell’ILVA, il datore di
lavoro potrà riconsiderare la propria posizione. Se egli nota, invece, che a tale sciopero
prende parte un numero modesto di lavoratori, egli non farà altro che rafforzare il proprio
potere al tavolo delle trattative). Tuttavia lo sciopero può essere mirato a far pressione
anche su un soggetto diverso, lo Stato, per spingerlo ad un’azione di Governo più rapida
o migliore. Tra l’altro vi sono forme di autotutela che formano oggetto di un diritto,
addirittura costituzionalmente garantito, sebbene esercitato entro i limiti legali. Vi sono
altre forme che costituiscono espressione della mera libertà di una parte (pensiamo alla
serrata dei datori di lavoro) ed infine vi sono manifestazioni di autotutela che configurano
un illecito civile, amministrativo e nel peggiore dei casi penale. N.B. la parte che segue è
di fondamentale importanza, quindi se fino ad ora avete studiato mettendoci il 60% del
vostro impegno, siete invitati, per vostro stesso interesse, ad aumentare tale percentuale
nell’analisi dei capitoli dall’undicesimo al quattordicesimo. Il diritto sindacale è anzitutto
diritto di sciopero. Senza di esso i sindacati non avrebbero alcun potere e non avrebbero,
storicamente, acquisito alcun diritto.

Sciopero e diritto: lineamenti storici

Fino all’emanazione del codice penale Zanardelli nel 1889, lo sciopero, di pari passo con
l’organizzazione sindacale, veniva considerato come reato penale. All’interno del suddetto codice, invece, lo sciopero non fu catalogato quale reato, purché posto in essere senza violenza e minacce. Tuttavia la giurisprudenza del tempo, molto spesso, tendeva a reprimere lo sciopero. Con l’avvento dell’ordinamento corporativo nel 1926, lo sciopero venne nuovamente catalogato come reato penale, sebbene non per reprimere l’organizzazione sindacale, già sotto il controllo del regime, ma per garantire l’operatività della magistratura del lavoro. Lo stesso codice penale Rocco del 1931, quello ancora in vigore oggi, sanzionava come reati contro l’economia pubblica e contro la pubblica
amministrazione tutti i mezzi di lotta sindacale, sia nel settore privato, sia in quello pubblico in merito, soprattutto, ai servizi essenziali. La L.146/1990 ha abrogato definitivamente le norme penali riguardanti lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, disciplinando direttamente la materia.

Lo sciopero nella Costituzione

Il diritto di sciopero è garantito, nell’ambito delle leggi che lo regolano, dall’art.40 della nostra Costituzione. Il diritto di sciopero è uno strumento di effettività della libertà sindacale: tramite tale
strumento le organizzazioni sindacali possono far sentire il proprio peso e non confinare, ad un urlo pressoché muto, le proprie pretese (questa è bellissima eh, non so neanche io come mi è venuta). Lo sciopero, inoltre, è un mezzo di partecipazione dei lavoratori non solo all’attività sindacale, ma alla vita economico-sociale del Paese: è come se il lavoratore diventasse un’unica cosa con il sistema di cui fa parte. Inoltre, di fondamentale importanza è la connessione, ribadita anche dalla Corte costituzionale, tra l’art.39 e l’art.40 della Costituzione: la libertà sindacale ed il diritto allo sciopero sono strettamente collegati, di modo che la prima non possa esistere senza il secondo. La Corte ha, inoltre, ribadito che la norma contenuta nell’art.40 Cost. è norma precettiva, da subito operante
all’interno dell’ordinamento senza la necessità di un intervento legislativo, ipotizzata (la necessità), fino alla pronuncia della stessa Corte nel 1960 con la sentenza 29, da gran parte della dottrina. La sentenza in questione dichiarò incostituzionale l’art.502 c.p. che qualificava sciopero e serrata per fini contrattuali come delitti. A proposito della serrata, occorre precisare che mentre lo sciopero è un diritto, la stessa è soltanto un’esplicazione della libertà del datore di lavoro: non è in alcun modo posta sullo stesso piano dello sciopero, proprio in considerazione della situazione di sottoprotezione sociale del lavoratore e della necessità di una maggiore tutela dello stesso.
Lo sciopero nel diritto dell’Unione europea

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata nel 2000 e meglio conosciuta come Carta di Nizza, riconosce, nel vasto elenco di diritti tutelati, quello alla contrattazione collettiva ed allo sciopero, visto come mezzo d’azione per la difesa degli interessi in caso di conflitti. La Carta in questione è stata parificata ai Trattati solo a partire dal Trattato di Lisbona del 2007 entrato in vigore il 31 dicembre 2009. Sebbene vi sia un riconoscimento di tale importanza, l’art.153 TFUE ha escluso il diritto di sciopero dalle materie di competenza concorrente tra Unione e Stati membri, affidando a questi ultimi, in via esclusiva, la disciplina del diritto in questione (ricordiamo che sono escluse anche altre materie: retribuzioni, diritto di associazione e serrata).

Lo sciopero come diritto: conseguenze

Data l’originaria scissione tra diritto pubblico e privato, lo sciopero, diritto costituzionalmente garantito, venne per un lungo periodo definito come “diritto pubblico di libertà”, ossia operante nei confronti dello Stato, che non avrebbe in alcun modo potuto emanare provvedimenti in contrasto con tale diritto. Si comprese ben presto che il diritto di sciopero operasse anche nei confronti del
datore di lavoro: la L.604/1966 sui licenziamenti individuali, dichiarò nullo il licenziamento consecutivo all’esercizio di libertà sindacali, ivi compreso lo sciopero. La L.300/1970 (Statuto dei lavoratori) rafforzò tale idea, sancendo come illeciti tutti i comportamenti discriminatori del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori scioperanti. Si comprende come, nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, lo sciopero si sia trasformato da una semplice libertà in un vero e proprio diritto, il cui esercizio non è punibile in alcun maniera (il libro riporta il principio “qui iure so utitur,
neminem laedit”, ossia “colui che esercita un diritto, non lede nessuno”). Ovviamente ciò comporta, comunque, la sospensione momentanea del rapporto di lavoro, facendo venir meno il sinallagma che lega le prestazioni oggetto del contratto di lavoro: è quindi previsto che alle giornate di sciopero corrisponda una mancata retribuzione da parte del datore di lavoro, non essendoci prestazione lavorativa.

La titolarità del diritto di sciopero

La titolarità del diritto di sciopero non spetta alle organizzazioni sindacali, bensì ai lavoratori. Si tratta, infatti, di un diritto individuale ad esercizio collettivo, ossia di un diritto che vada esercitato per tutelare interessi collettivi e non individuali: anche un solo soggetto può scioperare per difendere dei diritti collettivi, così come, al pari, possono scioperare una moltitudine di lavoratori senza dar luogo ad uno sciopero, perché magari mirano a tutelare interessi individuali.

Gli scioperi dei lavoratori parasubordinati e le astensioni degli autonomi

Varie sentenze della Corte costituzionale e l’appoggio da parte della dottrina, hanno permesso di qualificare come titolari del diritto di sciopero non solo i lavoratori subordinati, ma anche coloro che, nonostante un diverso contratto, si trovano in una situazione di sottoprotezione sociale. Per tal motivo, godono del diritto di sciopero anche i lavoratori autonomi parasubordinati (ossia coloro che mettono la propria attività autonoma al servizio di un datore di lavoro).L’astensione dal lavoro autonomo, invece, non costituisce esercizio del diritto di sciopero tutelato dall’art.40 Cost.: in tal caso, infatti, non si ha alcuna sottoprotezione sociale tutelabile, limitandosi tale astensione ad
integrare una manifestazione della libertà associativa, di cui all’art.18 Cost. (è il caso dell’astensione dalle udienze degli avvocati).




Natura giuridica del diritto di sciopero

Prima di riassumere questo paragrafo, ripetiamo insieme alcune nozioni del diritto privato, giusto per rinfrescarci la memoria.Per “diritto potestativo” s’intende una situazione giuridica soggettiva che attribuisce al titolare il potere di agire per la tutela di un proprio interesse, cui si contrappone la situazione di soggezione del soggetto nei cui confronti è esercitato il diritto: quest’ultimo non potrà far nulla per impedire l’esercizio del diritto potestativo. Per “negozio giuridico” s’intende una dichiarazione di volontà con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti ed alla quale l’ordinamento giuridico ricollega effetti (giuridici) conformi al risultato voluto. Si tratta di dichiarazioni di volontà con le quali i privati esprimono la volontà di regolare in un determinato modo i propri interessi, nell’ambito dell’autonomia a loro riconosciuta dall’ordinamento. Per fatto giuridico s’intende qualsiasi avvenimento al quale l’ordinamento ricolleghi conseguenze giuridiche.Date le definizioni, analizziamo la natura giuridica del diritto di sciopero. Una dottrina molto accreditata lo aveva definito come diritto potestativo da esercitare nei confronti del datore di lavoro, posto quindi in uno stato di soggezione. Tale definizione comportava, però, che il diritto di sciopero potesse essere esercitato SOLO nei confronti del datore di lavoro, per rivendicare interessi che lo stesso era in grado di soddisfare. Si tratta della teoria della “disponibilità della pretesa”. Messa da parte tale teoria, prendiamone in considerazione un’altra, la quale vedeva il diritto di sciopero come un negozio giuridico: in realtà non può essere condivisibile, in quanto nel lavoratore non vi è alcun intento negoziale, che semmai potrebbe esistere nelle organizzazioni sindacali qualora esse concedessero un’autorizzazione allo sciopero. Titolari del diritto, però, sono i lavoratori e non le organizzazioni sindacali: pertanto, tale teoria, è inaccettabile. Il diritto di sciopero è, in realtà, un mero fatto giuridico: la difesa dell’interesse collettivo assume rilevanza per l’ordinamento, che vi ricollega l’effetto giuridico della sospensione del rapporto di lavoro (se guardate la definizione generale vedrete come combacia perfettamente con il caso specifico).

Sciopero e retribuzione

Abbiamo già detto che lo sciopero, sospendendo l’attività lavorativa oggetto del contratto di lavoro, fa venire meno anche la controprestazione retributiva del datore di lavoro. Ad essere sospesa, in base alla durata dello sciopero, è la retribuzione nella sua interezza, ossia comprensiva di tutti gli
elementi accessori, quali la tredicesima mensilità, altre mensilità aggiuntive, premi ecc. Inoltre lo sciopero comporta anche la diminuzione delle ferie: se esse rappresentano la possibilità per il lavoratore di recuperare le energie spese durante un anno di lavoro, non potranno essere erogate totalmente qualora il lavoratore non abbia speso alcun energia, appunto scioperando. Una dottrina meno accreditata, prevede invece che lo sciopero non debba ricadere né sulle ferie, né sugli elementi accessori della retribuzione, il che, però, non è concepibile alla luce della sospensione dell’attività lavorativa. Caso particolare è quello degli “scioperi brevi”, ossia quelli di durata inferiore alla giornata di lavoro. In tal caso bisogna tener conto dell’unità tecnico-temporale infrazionabile della prestazione lavorativa, prevedendo che una sospensione della retribuzione in tal caso, inerente l’intera giornata lavorativa, è concepibile solo nel momento in cui l’attività lavorativa
perda di significato: al di sotto dell’unità tecnico-temporale, infatti, sarà ammessa la sospensione della retribuzione.

Le attività strumentali all’esercizio dello sciopero

Oltre allo sciopero, legittime sono anche tutte quelle attività strettamente collegate allo stesso, quali la propaganda, volta alla promozione dello sciopero, le pubbliche manifestazioni, per far si che anche il resto dei cittadini solidarizzi con i lavoratori scioperanti, i cortei interni, sebbene non
debbano essere occasione per la commissione di atti illeciti e il picchettaggio, ossia l’organizzazione di una vigilanza all’ingresso dei luoghi di lavoro, volta a non far entrare neanche coloro che non aderiscono allo sciopero e considerata illecita qualora posta in essere con violenza o minacce.

CAPITOLO DODICESIMO – LIMITI AL DIRITTO DI SCIOPERO

La tecnica definitoria

L’art.40 Cost. recita:<< Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano>>. Va precisato, però, che tale enunciato non presuppone che lo sciopero possa essere attuato solo in presenza di una legislazione a riguardo, bensì che lo sciopero, presto o tardi, avrebbe meritato una tutela legislativa in aggiunta al dettato costituzionale, in assenza della quale avrebbe a ciò supplito la giurisprudenza. In effetti fino al 1980 si è utilizzata la cosiddetta “tecnica definitoria”, dando appunto una definizione di sciopero limitata da alcuni elementi: l’attinenza ad un rapporto subordinato, la continuità dell’astensione (non a singhiozzo) ecc. Tutti elementi, dunque, in assenza dei quali non si poteva applicare la tutela costituzionale e non si poteva parlare, a livello giuridico, di “sciopero”. Con la sentenza 711/1980 della Cassazione, la linea interpretativa giurisprudenziale cambiò drasticamente, avvicinandosi a quella dottrinale: la Corte chiarì che parlando di sciopero si dovesse prendere in considerazione il significato della parola all’interno del contesto sociale, ossia nella prassi, e non la nozione fornita dalla tecnica definitoria, ovviamente senza fare in modo che per sciopero s’intendesse qualsiasi manifestazione di lotta che i soggetti designassero come tale (per esempio l’occupazione di fabbrica). Fino a tale sentenza, però, è sussistita la distinzione tra limiti interni dello sciopero, dati dal coordinamento e dal contemperamento dei vari valori costituzionali, e limiti esterni dello sciopero, argomentati tramite la tecnica definitoria. Tale distinzione, ovviamente in forza della sentenza di cui sopra, è stata superata.

SEZIONE A: GLI INTERVENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULLE NORME PRECOSTITUZIONALI INCRIMINATRICI DELLO SCIOPERO

Sciopero-diritto e sciopero-reato

Abbiamo già avuto modo di precisare come, anteriormente alla Costituzione, fossero in vigore norme del codice penale che definivano lo sciopero come reato, residuo dell’ordinamento
corporativo fascista. In realtà tali norme rimasero in vigore anche dopo l’emanazione della Costituzione, entrando così in contrasto con l’art.40. La L.146/1990, che ha disciplinato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, ha abrogato gli artt.330 e 333 c.p. che vietavano lo sciopero in tali servizi. Sono rimasti, però, in vigore gli artt.502 al 508 c.p. Solo l’art.502 venne dichiarato incostituzionale dalla Corte , il quale puniva la serrata e lo sciopero per fini contrattuali, ma la Corte non ha esteso, pur potendo farlo, l’illegittimità ai successivi articoli, limitandosi alla manipolazione degli stessi, attraverso dichiarazioni d’incostituzionalità parziale.

Lo sciopero politico

Soffermiamoci ora sugli art.503 e 504 del codice penale. Il primo prevede il reato di sciopero “politico”, mentre il secondo prevede il reato di sciopero “volto a costringere l’autorità ad emanare o a non emanare un provvedimento, o comunque ad influire su di essa”. Secondo la tecnica
definitoria giurisprudenziale sopra descritta e in forza dell’orientamento dottrinale secondo cui lo sciopero potesse essere posto in essere solo come diritto potestativo nei confronti del datore di lavoro, gli artt.503 e 504 c.p. erano pienamente legittimi e compatibili con l’art.40 Cost. In seguito, però, abbiamo visto come sia l’orientamento dottrinale di questo genere, sia la tecnica definitoria, siano venuti meno, dando luogo ad una nuova linea dottrinale che concepì la distinzione tra sciopero politico in senso stretto, ossia inerente alle linee politiche generali di un Governo in materie differenti da quelle del lavoro, e sciopero economico-politico, posto in essere al fine di rivendicare i diritti dei lavoratori e riguardante le condizioni socio-economiche degli stessi. Inizialmente la Corte costituzionale abbracciò questa nuova teoria, prevedendo che legittimo fosse lo sciopero politico posto in essere al fine di tutelare gli interessi collettivi dei lavoratori, per
spingere, quindi, lo Stato ad intervenire su una materia o ad evitare interventi sulla stessa. In seguito si comprese come anche lo sciopero politico puro (non solo, quindi, economico-politico), sebbene non fosse direttamente tutelato dall’art.40 Cost., fosse ugualmente un mezzo di partecipazione all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese, al pari di quanto previsto in tema di uguaglianza sostanziale dall’art.3 comma 2 Cost., e che quindi fosse comunque una libertà, sebbene non un diritto. Si giunse, quindi, a dichiarare quasi totalmente incostituzionale l’art.503 c.p.: la Corte costituzionale lo lasciò in vigore per i soli casi in cui lo sciopero politico avesse tentato di
sovvertire l’ordinamento costituzionale o laddove, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, avesse impedito il libero esercizio dei diritti e poteri nei quali si manifesta la sovranità popolare. La questione rimane, tuttora, incerta, in quanto non si è ben capito, in quanto non precisato, quale siano i limiti “di una legittima forma di pressione” e cosa debba intendersi per impedimento del libero esercizio, laddove sarebbe necessario anche il dolo degli scioperanti (es. sciopero del settore dei trasporti impedisce una riunione parlamentare: non c’è dolo, quindi il reato non dovrebbe sussistere). Il medesimo ragionamento, comunque, venne adottato anche per l’art.504 c.p. Concludiamo dicendo che, comunque, i due articoli sono ancora in vigore all’interno del nostro
ordinamento, sebbene particolarmente manipolati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

Lo sciopero di solidarietà

All’interno del nostro ordinamento risulta ancora in vigore l’art.505 c.p., il quale vieta il c.d. sciopero di solidarietà. La Corte costituzionale, con la sentenza 123/1962 ha legittimato tale sciopero, che ricorre quando alcuni lavoratori scioperino senza avanzare pretese inerenti il proprio rapporto di lavoro, ma semplicemente per solidarizzare con le rivendicazioni di altri gruppi oppure contro la lesione di interessi di un singolo lavoratore, solo nel caso in cui vi sia una “comunanza di
interessi”, ossia degli interessi condivisi, tra chi sciopera e chi vede lesi i propri diritti/interessi. Qualora questa comunanza manchi, si applica l’art.505 c.p.

SEZIONE B: SCIOPERO E LIBERTA’ D’INIZIATIVA ECONOMICA

Le c.d. forme anomale di sciopero

Analizziamo ora l’impatto che l’esercizio del diritto di sciopero ha sull’attività imprenditoriale. Fino al 1980, anno in cui fu emanata la sentenza 711 della Corte di Cassazione che segnò l’abbandono della tecnica definitoria e dei conseguenti limiti imposti alla definizione di sciopero, la giurisprudenza ha ritenuto illegittime alcune forme “anomale” di sciopero, tra cui gli “scioperi a singhiozzo”, ossia quelli che prevedono un’astensione dal lavoro frazionata nel tempo in periodi brevi, e gli scioperi “a scacchiera”, ossia quelli che prevedono l’alternanza dell’astensione dal lavoro di gruppi di lavoratori in tempi diversi. Si parla, in tali casi, di sciopero articolato, il quale richiede un’ampia forza di coesione tra i lavoratori, che permette agli stessi di limitare al minimo le perdite retributive.


Sciopero articolato e danno ingiusto

Abbiamo visto come per tecnica definitoria s’intendesse la definizione aprioristica della nozione di sciopero, la quale avrebbe dovuto contemplare alcuni elementi, tra cui la “totalità dello sciopero”,
intesa sia come astensione contemporanea di tutti gli scioperanti dall’attività lavorativa, sia come continuità temporale dell’astensione. In base a questa concezione, la giurisprudenza elaborò la “teoria del danno ingiusto o della corrispettività dei sacrifici”, secondo cui lo sciopero articolato (a scacchiera o a singhiozzo) causava al datore di lavoro un danno ingiusto, non proporzionato al mancato pagamento della retribuzione. In realtà la stessa giurisprudenza non definiva il “danno ingiusto”. I lavoratori, inoltre, non devono sottostare ad alcuna proporzione tra il danno causato e la mancata retribuzione, in quanto lo sciopero è posto in essere proprio al fine di rendere il più efficace possibile il danno stesso, per la tutela degli interessi collettivi.

Sciopero e responsabilità aquiliana

In realtà il danno ingiusto si verifica solo nel caso in cui venga leso l’interesse del datore di lavoro alla conservazione dell’organizzazione aziendale, non al mero svolgimento dell’attività produttiva: solo in tal caso si potrebbe avere una responsabilità aquiliana (extracontrattuale) dei lavoratori. Tale teoria venne elaborata dalla dottrina (Ghera, qualcuno lo avrà già sentito nominare) ed accettata dalla giurisprudenza della Cassazione nella sentenza 711/1980, la quale negò che la legittimazione o meno di uno sciopero dipendesse dalla distribuzione temporale o della partecipazione allo stesso.

Il danno alla produttività

La decisione della Cassazione nella sentenza 711/1980 segnò l’abbandono della tecnica definitoria e dei limiti interni allo sciopero, ossia quelli inerenti alla sua nozione, ma confermò come lo stesso sciopero potesse incontrare dei limiti riscontrabili all’interno di altre norme costituzionali: si trattava, in sostanza, di contemperare l’interesse tutelato dall’art.40 Cost. ed altri interessi costituzionali. Uno di questi interessi, che possono limitare l’esercizio del diritto di sciopero, è quello inerente la libertà d’iniziativa economica dell’imprenditore, contenuto all’interno dell’art.41 Cost. Lo sciopero, in pratica, non deve recare un DANNO ALLA PRODUTTIVITA’, ossia non deve pregiudicare irreparabilmente la produttività, la capacità di produrre dell’azienda, ossia la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la propria attività economica. Non si tratta, quindi, di una DANNO ALLA PRODUZIONE, ossia alla possibilità di trarre ricavo/guadagno dall’iniziativa economica, che invece può essere arrecato proprio per danneggiare l’imprenditore al fine di ottenere una maggior tutela dei diritti dei lavoratori.

Distinzione tra danno alla produzione e danno alla produttività

Tuttavia talune volte può capitare che un danno alla produzione, che riguarda i mancati utili dell’imprenditore, si trasformi, in situazioni particolari, in un danno alla produttività, ossia alla capacità dell’imprenditore di continuare ad esercitare la propria attività economica. Il confine, quindi, segnato dalla sentenza 711/1980 può divenire molto sottile. Particolari sono i casi dell’industria siderurgica e chimica, in cui alcuni impianti non possono essere fermati senza degradare gli stessi o senza che il materiali si deperisca. In queste situazioni vengono previste le “c.d. comandate”, ossia degli accordi tra sindacati e datori di lavoro che permettano la continuazione dell’attività da parte di alcuni prestatori, in maniera tale da non arrecare alcun danno alla produttività (immaginate un danno ad un altoforno dell’ILVA). Anche in mancanza di tali accordi, gli stessi lavoratori devono predisporre, in caso di sciopero, un piano di lavoro per alcuni
prestatori, onde evitare di incorrere nella responsabilità extracontrattuale, a norma dell’art.2043 c.c., di cui parlavamo prima.
I limiti al diritto di sciopero nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea

In questo paragrafo l’autore prende in considerazione il rapporto tra libertà economiche previste all’interno dell’Unione europea e diritto di sciopero, analizzando due differenti decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Analizziamo prima i due casi specifici e poi prendiamo in considerazione le due decisioni a riguardo.Caso Viking (mi sento come quelli di Matrix o di altri programmi che descrivono l’accaduto): una società di trasporti finlandese, la Viking appunto, al fine di applicare la contrattazione collettiva di un altro Paese membro e di poter retribuire in maniera inferiore i propri dipendenti, cambia bandiera alle proprie navi, registrandole in Estonia. I sindacati e la Federazione internazionale dei lavoratori nel settore dei trasporti (ITF) avviano un’azione sindacale, invitando gli affiliati della stessa ITF a non avviare trattative con la Viking. Il caso finisce dinanzi ad un giudice inglese, che sospende il giudizio e chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla possibilità di un’azione sindacale di impedire ad un datore di lavoro di avvalersi della libertà di stabilimento. Caso Laval: una società lettone, la Laval appunto, distacca alcuni dipendenti in Svezia presso un’altra società, controllata al 100% dalla Laval. I sindacati
chiedono di applicare il contratto collettivo svedese a tali lavoratori, ma non si riesce a concludere l’accordo. I sindacati, allora, bloccano l’accesso delle merci in cantiere ed impediscono ai lavoratori lettoni di entrarci. In seguito il sindacato svedese degli elettrici, tramite un’azione di solidarietà, impedisce alle imprese di installatori elettrici di fornire servizi alla Laval. Quest’ultima ricorre dinanzi ad un giudice, che sospende il giudizio e rimette la decisione inerente la compatibilità dell’azione sindacale con la libera prestazione di servizi, nelle mani della Corte di Giustizia. La Corte di Giustizia, dopo aver riconosciuto il diritto allo sciopero come principio fondamentale del diritto comunitario, permette alle libertà economiche in questione (libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi) di prevalere sul diritto di sciopero, il quale può limitare le libertà economiche, a detta della Corte, soltanto se persegue un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato e solo a patto che sia giustificato da ragioni d’interesse generale, qualora, tra l’altro, risulti impossibile una diversa azione volta allo stesso scopo e non limitativa delle libertà economiche, in quanto questa stessa azione (lo sciopero) potrebbe travalicare ciò che è necessario per raggiungere lo scopo. In poche parole lo sciopero va posto in essere per limitare tali libertà solo entro certi limiti e solo in casi estremi. Punto primo: quale Trattato attribuisce alla Corte di Giustizia il potere di limitare il diritto di sciopero, dato che l’Unione Europea non ha competenza in materia, proprio in
forza dell’art.153 TFUE??? e detto ciò, la Corte non dovrebbe esprimersi solo sull’osservanza delle norme del Trattato e dei principi generali comunitari, ma solo nelle materie di competenza, esclusiva e concorrente, dell’Unione?Punto secondo: perché viene dato per scontato che la Viking stia esercitando semplicemente la libertà di stabilimento e non stia manipolando la stessa per un fine distorto o fraudolento???Punto terzo: perché la Corte di Giustizia, pur ponendo sullo stesso piano le libertà economiche e la libertà di intraprendere azioni collettive (come lo sciopero), permette alle seconde di prevalere???


CAPITOLO TREDICESIMO – SCIOPERO E SERVIZI ESSENZIALI

Premessa

L’esercizio del diritto di sciopero all’interno di servizi pubblici essenziali, oltre a causare un danno al datore di lavoro al pari di ciò che avviene per altri tipi di rapporti lavorativi, causa un danno anche all’utenza, ossia a tutti i cittadini che sfruttano e necessitano di tali servizi. Ed anzi, talune volte, il fine di questo tipo di scioperi è proprio quello di provocare una reazione degli utenti. La materia, per la sua importanza, è stata disciplinata dalla L.146/1990, poi modificata dalla L.83/2000, primo esempio legislativo di disciplina del diritto di sciopero.

La giurisprudenza costituzionale sugli artt.330 e 333 c.p.

Prima della L.146/1990 la materia era disciplina dagli artt.330 e 333 c.p., i quali prevedevano il reato di abbandono collettivo ed individuale di un pubblico servizio. Talune leggi speciali, invece, vietavano o limitavano il diritto di sciopero in alcuni casi specifici (es. L.121/1981 inerenti il divieto di sciopero per la Polizia di Stato). Fatti salvi i divieti della normativa speciale, la legge 146/1990 ha previsto che siano classificati come “servizi pubblici essenziali” solo quelli funzionali
all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti di rango superiore o paritario; inoltre il legislatore ha previsto che in tali settori il diritto di sciopero possa essere esercitato, ma senza impedire l’effettivo godimento dei diritti di cui sopra e contemperando il diritto di sciopero e l’altro diritto costituzionale, garantendo dei servizi minimi anche in costanza dello sciopero stesso.

I servizi essenziali

Sono “servizi essenziali” secondo l’art.1 della L.146/1990 quelli volti a garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati, enunciati nello stesso articolo, ossia il diritto alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza ed alla previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione. Sempre l’art.1 precisa che la definizione di
servizi essenziali esuli dalla natura giuridica del rapporto di lavoro, pubblico o privato. L’art.2 contiene, poi, un elenco esemplificativo dei servizi essenziali.

L’astensione dal lavoro dei lavoratori autonomi

Abbiamo avuto modo di dire, nei precedenti capitoli, che titolare del diritto di sciopero non è solo il lavoratore subordinato, ma anche quello parasubordinato, con l’esclusione dei lavoratori autonomi. Nella L.146/1990 vi era già la volontà del legislatore di estendere la normativa oltre il confine del lavoro subordinato, ma il legislatore non era stato abbastanza chiaro ed esplicito, nonostante in seguito la dottrina lo avesse appoggiato.La Corte Costituzionale, in una sentenza del 1994, aveva
ribadito come fosse necessaria un’integrazione della disciplina legislativa, dato che la L.146 comprendeva solo il diritto di sciopero, di cui non godevano (e non godono) i lavoratori autonomi. In una successiva pronuncia, due anni più tardi, la Corte aveva ritenuto incostituzionali due commi dell’art.2 della legge 146, prevedendo che un congruo preavviso inerente l’astensione dall’attività lavorativa dovesse essere dato anche da coloro che non godevano del diritto di sciopero, sebbene erogassero servizi essenziali. La L.83/2000 ha colmato la lacuna della legge 146, prevedendo dei limiti anche all’astensione dalla propria attività di lavoratori autonomi esercenti servizi pubblici
essenziali.

Il preavviso e l’obbligo di indicare la durata

Già la L.146 nel suo testo originario, antecedente alla modifica del 2000, prevedeva tre limiti al diritto di sciopero per i servizi pubblici essenziali:Obbligatorietà del preavviso;Indicazione preventiva della durata dello sciopero;Previsione di misure per garantire i servizi indispensabili. La L.83/2000 ha inserito un ulteriore limite:Obbligo di esperire una procedura di raffreddamento e di conciliazione prima della proclamazione dello sciopero, secondo quanto previsto dai contratti collettivi (il che obbligherebbe solo gli iscritti ai sindacati firmatari) o, in assenza, secondo quanto previsto dalla stessa legge. In costanza della procedura non è possibile né proclamare lo sciopero, né per i datori di lavoro adottare delle contromisure. Abbiamo citato l’obbligo di preavviso. La durata minima, derogabile dai contratti collettivi, è di 10 giorni ed il preavviso deve essere contenuto in una comunicazione scritta, indicante la durata, le modalità e le motivazioni dello sciopero, da consegnarsi all’impresa/amministrazione che eroga il servizio ed all’autorità competente alla precettazione, che la trasmetterà alla Commissione di garanzia. Le imprese/amministrazioni, invece, almeno 5 giorni prima dello sciopero, devono comunicare all’utenza come il servizio continuerà ad essere erogato ed in quali tempi. Importante, per ciò che concerne lo sciopero all’interno dei servizi pubblici essenziali, è il c.d. effetto annuncio: una gran parte dell’utenza, avuta notizia dello sciopero, tende a non utilizzare proprio quel servizio nei giorni previsti, il che comporta un potere maggiore delle organizzazioni sindacali, le quali potrebbero, senza ricorrere allo sciopero, ottenere ugualmente il soddisfacimento delle proprie pretese. Tuttavia la L.83/2000 ha previsto che la revoca dello sciopero, una volta che ne è stata data notizia all’utenza, costituisce una forma sleale di azione sindacale, almeno che non sia giustificata da un accordo specifico tra le parti o un impegno a riprendere le trattative, oppure da una richiesta della
Commissione di garanzia o dell’autorità competente per la precettazione. Sono previste, tuttavia, delle deroghe all’obbligo di preavviso in due casi ben distinti: sciopero in difesa dell’ordine costituzionale: situazione estrema in cui la minaccia dell’ordine costituzionale provoca la reazione dei lavoratori tramite lo sciopero ;sciopero di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori.
Essendo casi eccezionali, infatti, non è ipotizzabile un preavviso che svuoterebbe di significato l’azione di sciopero.

Le prestazioni indispensabili

Uno dei limiti imposti al diritto di sciopero, in ambito di servizi pubblici essenziali, è costituito dall’obbligatorietà di garantire i servizi indispensabili anche in costanza dello sciopero: si parla, in tal caso, di prestazioni indispensabili. Il compito di individuare le prestazioni indispensabili e di organizzarle spetta alla contrattazione collettiva, per ciò che concerne i lavoratori subordinati, ed ai codici di autoregolamentazione delle associazioni di categoria, per ciò che riguarda i lavoratori autonomi, i professionisti ed i piccoli imprenditori. Sia gli accordi che i codici di autoregolamentazione devono, non solo, individuare le prestazioni indispensabili, ma anche prevedere delle misure per l’erogazione delle stesse: può trattarsi di misure che prevedano lo sciopero solo di alcune quote di lavoratori, con l’esercizio dell’attività lavorativa da parte di altri, oppure di misure che prevedano un’erogazione periodica dei servizi nella loro totalità ed un assenza in altri periodi. Non va dimenticato, inoltre, l’obbligo di “rarefazione”, il quale prevede che gli accordi debbano indicare periodi minimi di tempo tra uno sciopero e l’altro, onde evitare una mancata continuità dei servizi pubblici. Va sottolineato come tali accordi si applichino anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati firmatari dell’accordo collettivo inerente le prestazioni indispensabili. Tra l’altro, un organismo appositamente costituito, ossia la Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge, deve valutare l’idoneità dell’accordo e la sua conformità alle previsioni legislative, oltre a poter prevedere regole provvisorie in mancanza dell’accordo stesso.

La regolamentazione provvisoria della Commissione di garanzia

A stabilire modalità di esercizio degli scioperi nei servizi pubblici essenziali e ad identificare le
prestazioni indispensabili, interviene l’autonomia collettiva, che in tal caso, però, si presenta come un’autonomi guida e controllata. Già la legge del 1990 aveva, infatti, istituito un’autorità amministrativa indipendente, la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge, composta da 9 membri, esperti in materia di diritto costituzionale, del lavoro e sindacale, designati dai Presidenti delle Camere e nominati dal Presidente della Repubblica, la quale non risponde al Governo né a nessun’altra autorità, essendo i suoi membri inamovibili, ed il cui compito di gran lunga più importante è costituito dalla valutazione dell’idoneità degli accordi collettivi a realizzare il giusto contemperamento di interessi tra il diritto di sciopero e gli altri diritti costituzionalmente garantiti e determinanti all’interno dei servizi pubblici essenziali. Qualora l’accordo tra le parti sociali non venga raggiunto o risulti inidoneo al suo scopo, la Commissione formula essa stessa una proposta, che qualora non venga accettata, opera comunque provvisoriamente. Le parti sociali potranno, tra l’altro, interrompere tale operatività tramite un accordo, pur sempre adeguandosi alle linee guida della Commissione, per poter ottenere un proprio parere vincolante positivo sull’accordo
stesso.

Le sanzioni

La Commissione di garanzia per l’attuazione della legge possiede, inoltre, un elevato potere sanzionatorio, accresciuto dalla modifica apportata dalla L.83/2000. Essa, anzitutto, può valutare il comportamento delle parti di un conflitto sindacale ed aprire, nei loro confronti, un procedimento, d’ufficio o su istanza di una delle parti; tale procedimento va notificato alle parti, che hanno trenta giorni per chiedere di essere sentite. Entro e non oltre 60 giorni, comunque, la Commissione deve pronunciarsi sul comportamento della parte sociale interessata, deliberando una sanzioni ed indicando un termine entro il quale la decisione deve essere eseguita. Per ciò che concerne i lavoratori aderenti ad uno sciopero illegittimo, la Commissione può deliberare sanzioni in
proporzione all’infrazione, escluso, però, il licenziamento. I dirigenti dell’amministrazione/impresa per cui lavorano tali lavoratori devono eseguire la decisione della Commissione, dovendo una somma pecuniaria, a titolo di sanzione, per ogni giorno di ritardo nell’applicazione. Nei confronti, invece, delle organizzazioni sindacali che proclamino uno sciopero in violazioni delle disposizioni inerenti il preavviso, la comunicazione scritta, l’indicazione della durata e delle modalità dello
sciopero, l’esperimento obbligatorio della procedura di raffreddamento, la Commissione può prevedere:La sospensione dei permessi sindacali retribuiti;Il mancato recepimento dei contributi sindacali, girati all’INPS;L’esclusione dalle trattative;In assenza di benefici patrimoniali e di partecipazione alle trattative, può essere prevista una sanzione amministrativa pecuniaria a carico dell’organizzazione sindacale. Anche per le organizzazioni dei lavoratori autonomi, dei professionisti e dei piccoli imprenditori, possono essere previste sanzioni in caso di violazione dei codici di autoregolamentazione o della regolamentazione provvisoria prevista dalla Commissione. Unico particolare, meritevole di essere citato, lo ritroviamo nel fatto che della sanzione rispondono
solidalmente i lavoratori e le proprie organizzazioni: di fatto, quindi, qualora l’organizzazione dovesse adempiere al pagamento della sanzione, i lavoratori ne uscirebbero indenni.

Le associazioni degli utenti

A partire dalla fine degli anni 90, un considerevole e crescente numero di diritti viene riconosciuto alle associazioni che tutelano gli interessi degli utenti e dei consumatori, purché esse godano di una certa rappresentatività nazionale e siano iscritti in un apposito elenco. La L.83/2000, ovviamente, ha attribuito a tali associazione una serie di diritti in merito ai servizi pubblici essenziali. In particolar modo esse possono attivare la procedura per ottenere delle sanzioni dinanzi alla Commissione di garanzia , così come possono fornire un parere alla stessa in merito all’idoneità di accordi tra le parti sociali. Inoltre possono agire nei confronti delle organizzazioni rappresentative dei lavoratori, qualora esse abbiano revocato uno sciopero dopo la comunicazione all’utenza o lo abbiano ugualmente effettuato dopo l’invito della Commissione a differirlo, e nei confronti delle amministrazioni/imprese erogatrici di servizi pubblici essenziali, qualora le stesse non abbiano dato adeguata comunicazione delle modalità di esercizio del servizio nei periodi di sciopero.




La precettazione: aspetti sostanziali

La “precettazione”, in tema di astensione dal lavoro nei servizi pubblici essenziali, è un provvedimento, o meglio un’ordinanza, adottata dal potere esecutivo (Presidente del Consiglio o suo Ministro, qualora ci sia rilevanza nazionale, il Prefetto in tutti gli altri casi) per interrompere uno sciopero, nel caso in cui, oltre a ricorrere i presupposti di cui all’art.1 della L.146/1990, vi sia un pericolo grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente garantiti. La precettazione, in realtà, esisteva (ed esiste ancora) già prima della regolamentazione della materia da parte della legge 146: il Prefetto, in alcune materie (edilizia, polizia locale ed igiene) e per motivi di sanità e di sicurezza pubblica, poteva emanare un provvedimento (un’ordinanza) urgente. In tal caso, però, non c’era alcun legame con il diritto di sciopero.

La precettazione: aspetti procedurali

In ambito di servizi pubblici essenziali, legittimati alla precettazioni non sono solo le autorità di cui abbiamo parlato, ma anche la Commissione di garanzia: l’autorità precettante, tra l’altro, prima di emettere il provvedimento deve informare la Commissione; quest’ultima, invece, può segnalare
scioperi o astensioni collettive che comportino un imminente pericolo per i diritti della persona, alle autorità in questione. Prima di emanare il provvedimento, comunque, l’Autorità deve esperire un tentativo di conciliazione nel minor tempo possibile, ed in caso di esito negativo, può emettere l’ordinanza contenente le misure necessarie per la tutela degli interessi in gioco, misure, tra l’altro, mirate al contemperamento tra il diritto di sciopero e quello dei diritti costituzionali in pericolo, quindi effettivamente necessarie per il raggiungimento del fine. Il provvedimento va comunicato 48 ore prima dell’astensione, portato a conoscenza degli interessati tramite comunicazione ed affisso
nei luoghi di lavoro, nonché diffuso tramite mass-media. L’ordinanza può essere impugnata, dalle parti interessate, entro 7 giorni dalla comunicazione o dall’affissione, presso il TAR competente. Sono previste delle sanzioni pecuniari per chi non ottemperi al provvedimento di precettazione, irrogate dall’Autorità precettante ed applicate dall’ispettorato del lavoro.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO – ALTRE FORME DI LOTTA SINDACALE E LA SERRATA

SEZIONE A: ALTRE FORME DI LOTTA SINDACALE

Premessa

Vi sono tutta una serie di forme di lotta sindacale che non sono identificabili con lo sciopero, o perché vanno oltre di esso:Sciopero bianco;Occupazione di fabbrica;Blocco delle merci;o semplicemente perché non consistono in un’astensione dal lavoro:Boicottaggio;Sciopero delle mansioni;Ostruzionismo; Rallentamento concertato della produzione;Non collaborazione. Nonostante si faccia spesso confusione, non confondiamo mai tutte queste forme di lotta sindacale con lo sciopero.

Sciopero bianco ed occupazione di fabbrica

Sia lo sciopero bianco, sia l’occupazione di fabbrica, sono forme di lotta sindacale poste in essere durante uno sciopero ed a sostegno dello stesso. Entrambi i casi prevedono la permanenza dei lavoratori sul luogo di lavoro, ma mentre nel caso dello sciopero bianco i lavoratori non vogliono in alcun modo intralciare l’attività di gestione dell’imprenditore, nel caso dell’occupazione di fabbrica il fine è proprio quello, e talune volte si può tramutare in uno “sciopero alla rovescia”, che si ha nel momento in cui i lavoratori continuano, contro la volontà dell’imprenditore, nella propria attività lavorativa. L’imprenditore, in tali casi, può esperire l’azione di manutenzione a tutela del possesso, per cui ricordiamo non essere necessario, come nell’azione di spoglio, uno spoglio né violento né clandestino. L’art.508 c.p., inoltre, punisce coloro che, col solo scopo di impedire e turbare il normale svolgimento del lavoro, occupino ed invadano l’altrui azienda agricola o industriale. Sull’applicazione di tale norma, tra l’altro, la giurisprudenza appare molto divisa: la Corte costituzionale ha previsto che l’occupazione di fabbrica differisca notevolmente dallo sciopero, reputando costituzionalmente legittima la norma; i vari giudici di merito, però, talune volte hanno
riscontrato l’assenza del dolo specifico, della SOLA volontarietà di impedire e turbare lo svolgimento del lavoro, mentre altre volte hanno applicato l’art.508. Tuttavia risulta palesemente escluso, dall’applicazione del suddetto articolo, lo sciopero bianco. Talune volte, inoltre, sono state applicate altre norme del codice penale, come quella contenuta nell’art.614 c.p., riguardante il reato di violazione di domicilio, norma ricompresa tra i delitti contro libertà individuale e pertanto palesemente incompatibile col caso in questione.

Il blocco delle merci

Un’altra forma di lotta sindacale è costituita dal blocco delle merci, attuabile in due maniere diverse:Tentando di non far trasportare fuori dal magazzino le merci, tramite un’opera di convincimento e di propaganda nei confronti dei trasportatori: ed in tal caso trattasi di comportamento lecito;Impedendo ai trasportatori di accedere all’azienda per depositare merci, anche ricorrendo alla violenza: in tal caso il comportamento deve cessare e possono ricorrere gli estremi per l’applicazione dell’art.610 c.p. (violenza privata).

Le forme di lotta sindacale con offerta della prestazione

Analizziamo ora le forme di lotta sindacali che nulla hanno a che fare con lo sciopero e che non comprendono lo stesso, non godendo, quindi, della tutela apprestata dall’art.40 Cost. e regolate dal diritto civile:Rallentamento concertato della produzione, anche detto sciopero del rendimento: consiste nel rallentare l’attività lavorativa e produttiva, prestando una diligenza inferiore a quella normale: ciò può dar luogo a provvedimenti disciplinari, al risarcimento del danno ed, addirittura, al licenziamento per notevole inadempimento. Inoltre il datore di lavoro potrebbe non avere interesse a ricevere, in quel modo, la prestazione e sospendere la retribuzione. Non può, però, diminuirla, in quanto essa non è proporzionata al rendimento, ma all’orario di lavoro; Non collaborazione: consiste nell’esecuzione dello stretto necessario per ciò che concerne l’attività lavorativa e costituisce inadempimento contrattuale, in forza dell’art.1374 c.c. inerente l’integrazione del contratto, secondo cui lo stesso obbliga non solo a quanto in esso contenuto, ma a tutte le conseguenze derivanti dalla legge o dagli usi e dall’equità;Sciopero delle mansioni: i lavoratori si rifiutano di svolgere alcuni compiti dovuti per contratto. Il rifiuto, pertanto, è illegittimo e da luogo ad inadempimento;Ostruzionismo: consiste nell’applicazione continua e cavillosa dei regolamenti; ovviamente non può dar luogo ad alcun provvedimento disciplinare, né tanto meno ad inadempimento, ma può generare un abuso del potere discrezionale.

Il boicottaggio

L’ultima forma di lotta sindacale, che esula dallo sciopero, che andiamo ad analizzare è il boicottaggio: esso si attua quando, mediante propagando o valendosi della forza di gruppi sociali, si inducono una o più persone a non stipulare patti di lavoro, e a non somministrare materie prime o strumenti necessari al lavoro, oppure a non acquistare gli altrui prodotto agricoli o industriali. La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo l’art.507 c.p. che punisce tale reato.

SEZIONE B: LA SERRATA E LE ALTRE FORME DI AUTOTUTELA DEL DATORE DI LAVORO

Il silenzio della Costituzione

All’interno della nostra Carta costituzionale non è previsto, in alcun modo, la libertà di serrata da parte dei datori di lavoro: esso consiste nella chiusura totale o parziale dell’impresa, rifiutando le prestazioni dei lavoratori e non corrispondendo le retribuzioni. E’ una forma di autotutela degli imprenditori. In realtà la Costituzione l’ha volutamente esclusa, in quanto non voleva in alcun modo porre sullo stesso piano i datori di lavoro ed i lavoratori, tutelando in tal modo questi ultimi come categoria socialmente sottoprotetta e degna di un apposito strumento di autotutela.

Serrata e mora del creditore

Non essendo tutelata costituzionalmente, la serrata soggiace alle norme civilistiche in tema di “mora credendi o accipiendi”, ossia di mora del creditore (artt.1206 e ss) che rifiuta la prestazione lavorativa, ossia l’adempimento della controparte contrattuale. Il datore di lavoro, in tal caso, secondo il codice civile, deve corrispondere il risarcimento del danno provocato al debitore, il quale, secondo una parte della dottrina, non può essere inferiore alle retribuzioni che avrebbe dovuto corrispondere qualora avesse accettato la prestazione lavorativa. Inoltre dal risarcimento sarebbero detraibili i guadagni del lavoratore fatti altrove. Un’altra teoria dottrinale, invece, prevede che l’obbligazione retributiva permanga anche in stato di mora credendi e, pertanto, il datore di lavoro dovrebbe ugualmente corrispondere le retribuzioni.

La serrata di ritorsione

L’art.1206 c.c., in tema di mora credendi, prevede che il creditore non sia in mora nel momento in cui rifiuta la prestazione per un motivo legittimo: è il caso della c.d. serrata di ritorsione (o messa in libertà), la quale si verifica quando venga posto in essere uno sciopero articolato (a singhiozzo o a scacchiera). Infatti nella prassi italiana la serrata non è mai stata posta in essere per rivendicare qualcosa, ma solo come risposta a forme di lotta sindacale dei lavoratori. Si è cercato in vari modi di giustificare la serrata dei datori di lavoro nel caso di sciopero articolato: un orientamento giurisprudenziale ha sostenuto che la legittimità della serrata derivasse dall’illegittimità dello sciopero, di fatto prevedendo una responsabilità collettiva dei lavoratori che nel nostro ordinamento non esiste; un altro orientamento ha valutato la legittimità della serrata, precisando che, nel momento in cui al datore viene offerta la prestazione lavorativa, egli non ha interesse ad ottenerla in quanto non più utilizzabile e non proficua: questo, però, comporterebbe il passaggio del rischio della produttività sul lavoratore, da sempre, invece, gravante sull’imprenditore. Possiamo concludere che la serrata di ritorsione è ammissibile solo:Quando la prestazione, offerta nell’intervallo di uno sciopero a singhiozzo, sia tanto breve da non consentire alla prestazione stessa di realizzare la sua minima unità tecnicotemporale: in sostanza la prestazione perde di significato, essendo diversa da quella contrattualmente prevista;Quando, in uno sciopero a scacchiera, l’astensione di un gruppo di lavoratori, comporti l’impossibilità degli altri di eseguire la prestazione: la prestazione diviene impossibile ed è legittimo il rifiuto dell’imprenditore.

Il reato di serrata e la giurisprudenza costituzionale

La sentenza della Corte costituzionale 29/1960, dichiarando incostituzionale l’art.502.c.p., non abolì solo il reato di sciopero per fini contrattuali, ma anche quello di “serrata per fini contrattuali”, incluso nello stesso articolo. La Corte ebbe modo di chiarire come la serrata, pur non ricevendo la stessa tutela costituzionale dello sciopero, rientrasse ugualmente nella libertà sindacale di cui all’art.39 Cost. e pertanto non fosse in alcun modo perseguibile penalmente. In modo del tutto opposto si pronunciò in merito alla serrata di solidarietà o di protesta nel 1967 con la sentenza 141, precisando che la libertà di serrata si innestasse all’interno del rapporto datore-prestatore e che non avesse motivo di esistere al di fuori di esso, lasciando in vigore l’art.505 c.p. che continua, tuttora, a vietarla. Stesso ragionamento vale per la serrata a fine politico, art.503 c.p., e per la serrata di coazione della pubblica autorità, art.504 c.p, i cui divieti continuano ad operare.

La sostituzione dei lavoratori in sciopero

Il datore di lavoro, infine, può utilizzare metodi diversi dalla serrata di ritorsione per fronteggiare lo sciopero dei lavoratori, tra cui il più importante è la sostituzione degli stessi per l’intera durata dell’astensione. Egli può attuare una simile soluzione, adoperando per esempio lavoratori non scioperanti o di altre unità produttive, ma è chiamato al rispetto dell’art.2103 c.c. in merito alle mansioni: si deve trattare di mansioni equivalenti, o qualora si tratti di mansioni superiori ci deve essere una diversa retribuzione; non può mai trattarsi, tra l’altro, di mansioni inferiori. Il datore di lavoro, inoltre, potrebbe sostituire i lavoratori in sciopero con prestatori di lavoro assunti a tempo determinato o tramite un contratto di somministrazione: le discipline degli specifici contratti, però, hanno, nel tempo, impedito una soluzione di tal genere.